La storia del cinema è un arazzo intessuto di capolavori in bianco e nero molto prima che il film a colori fosse anche solo un barlume nell’occhio dell’industria cinematografica. Anche se oggi può sembrare difficile da credere, per motivi sia economici che moralistici, le immagini a colori erano considerate sproporzionate, eccentriche, quasi oscene. Così, fino alla metà degli anni ’30, il cinema era un regno dove tutto, dai costumi alle scenografie, era pensato in bianco e nero. La tintura dei vestiti in nero era un’impresa erculea, eppure era la sfumatura preferita dei cosiddetti togati– professori, giuristi e il ceto più ricco della borghesia. Loro, sulla base delle leggi suntuarie, scelsero questa tonalità come modo di vestirsi in modo neutro e distinguersi dallo scarlatto veneziano e dai blu fiorentini, riservati all’aristocrazia. Non sorprende che i team dei costumi abbiano usato questa assenza di colore come emblema di classe e intelletto per i decenni a venire.
Nel 1960, la sensazione cinematografica La Dolce Vita ha illuminato il grande schermo, esemplificando il potere dei costumi in bianco e nero più di qualsiasi altro film. Contro il bianco marmoreo della fontana di Trevi, gli abiti di Anita Ekberg e Marcello Mastroianni – avvolti in tonalità da lutto scure come la notte – hanno fornito un elegante contrasto mentre si bagnavano nelle acque gelide di Roma. Il regista Federico Fellini, un vero intenditore di moda, ha elaborato i look dei suoi personaggi con meticolosa attenzione, mirando a rendere visibili gli aspetti altrimenti invisibili delle loro psicologie. E quando, nel 1962, La Dolce Vita si è aggiudicato il premio per i Migliori Costumi agli Oscar, gli ensemble dei suoi personaggi hanno acquisito vita propria e sono diventati sinonimo di un certo stile di vita. La leggenda narra addirittura che il “dolcevita”, il modello eponimo di un maglione, derivi dalla scena finale del film in cui Mastroianni indossa una camicia scura e una sciarpa intorno al collo che, osservata da lontano, sembra essere un maglione a collo alto. (Le visioni di Fellini hanno avuto una portata duratura in più di un modo!) Sebbene il costumista Piero Gherardi meriti il merito per il suo fascino chic sobrio, fu Fellini stesso a dettagliare meticolosamente ciò che voleva che i suoi personaggi indossassero. Questa particolarità si può vedere in uno dei suoi famosi schizzi che raffigura l’outfit di Sylvia (Anita Ekberg), in cui scrive: “un vestito lungo blu notte con una spirale di paillettes come se fosse la Via Lattea.”
Nel flusso dei cambiamenti culturali degli anni ’40 e oltre, l’industria della moda ha subito una metamorfosi incessante. Tra questi sviluppi, il termine “prêt-à-porter” è emerso negli Stati Uniti come una moda democratica per le masse, e successivamente, Walter Albini ha trapiantato il concetto in Italia, spostando la capitale della moda del paese da Firenze a Milano. La nuova ossessione del paese per i tessuti, le silhouette e tutto ciò che riguarda la moda ha affascinato anche Michelangelo Antonioni, i cui film hanno catturato l’eleganza e la raffinatezza dello stile italiano con notevole compostezza. Pensa solo al cappotto di pelliccia bianco come la neve di Lucia Bosè in Cronaca di un amore (1950), un tocco di luce nelle ombre dei portici del Teatro alla Scala; la gonna dritta al ginocchio di Monica Vitti indossata sopra un décolleté bicolore in L’Avventura (1960) o il suo seducente abito nero con sottili spalline, indossato mentre gioca sul pavimento a scacchi bianco e nero in La notte (1961). (Di nuovo, viene utilizzato lo schema di colori bianco e nero.) Qui, il contrasto è semplicemente sorprendente, un perfetto riflesso del senso di dislocazione e disagio che pervade il film, unendo Lidia (Jeanne Moreau) e Valentina (Monica Vitti), che indossano lo stesso vestito, in un sentimento di profondo disincanto.
Insieme a Fellini, Antonioni ha usato il linguaggio della moda per comunicare una nuova sensibilità italiana dopo il realismo del dopoguerra, una ferita che faticava ancora a guarire. Il successo mondiale dei loro film ha promosso un nuovo stile che ha contribuito a gettare le basi per la ricostruzione economica dell’Italia: il cinema è il mezzo che, più di ogni altro, ha contribuito a plasmare l’immagine del Made in Italy – una di glamour e qualità. Questo, unito all’industria del prêt-à-porter appena nascente, ha messo l’Italia sulla scena mondiale del cinema e dei costumi. E quando Cinecittà è stata invasa dai registi di HollywoodEhi, Roma è diventata tipo la capitale della moda per le star, sai? Le case di moda romane si sono date da fare a produrre vestiti per le star e i film americani (tipo le sorelle Fontana). Si vedeva sempre più chiaro che si stava creando un legame, anche economico, tra moda, cinema e la città.

Fontana Sisters
Ma tutto questo casino non sarebbe successo senza una generazione di attori e attrici che si mettevano ‘sti look da paura. L’attore che ha definito il glamour della moda maschile italiana era Marcello Mastroianni, noto per il suo classico papillon nero e gli occhiali neri, a volte li portava pure di notte nei film di Fellini. Nel frattempo, un certo livello di carisma e portamento era scritto nei personaggi femminili italiani dell’epoca, e i costumi erano scelti per esaltare queste qualità (e anche le loro forme). L’incarnazione di questa tendenza era Sophia Loren, che, con stile e bravura, ha conquistato (e continua a incantare) designer e registi italiani e internazionali.
I suoi lineamenti marcati e la sua personalità altrettanto grande contrastavano con l’estetica minuta e riservata che dominava a Hollywood in quegli anni (pensa a Grace Kelly e Audrey Hepburn). In questo contrasto, Sophia Loren, per molti, è diventata l’immagine della donna italiana: passionale ed esplosiva, capace di indossare stampe floreali e colori vivaci in modo ammirevole mentre si mangia una bella piattona di pasta o di ballare tutto il giorno senza pensieri, come dimostrato dal vestito rosso fuoco a balze sfoggiato nel film Pane, amore e… (1955) di Dino Risi. Il vestito rosso ciliegia in stile burlesque – indossato nella scena in cui De Sica e Loren ballano il mambo – incarnava la passione del momento. (Questo rosso è diventato il colore più indossato da Loren.)
E che mi dici dell’estetica cinematografica italiana oggi? Il mondo della moda ha dato a Luca Guadagnino il titolo di erede e musa indiscussa del Made in Italy, e ha esaminato ogni aspetto del suo portfolio cinematografico – dai design intricati ai colori accesi, dai costumi meticolosi all’illuminazione rivelatrice. “Chi considera la moda una questione insignificante non troverà il mio accordo”, ha dichiarato il regista. “La moda è innanzitutto un sistema industriale. In secondo luogo, un sistema creativo, e in terzo, una specie di cartina di tornasole dei tempi in cui viviamo e un oroscopo del tempo in cui vorremmo vivere. In questo senso, come diceva Giacomo Leopardi, la moda è sorella della morte, perché insieme condividono l’imperativo del presente costante. Quindi, penso che l’argomento sia profondo, vasto, inesauribile, e per questo la moda mi interessa.”

Villa Necchi Campiglio
Nel film di Guadagnino Io Sono l’Amore (2010), ambientato nel glamour metropolitano di Milano, Tilda Swinton sfoggia un guardaroba di abiti impeccabilmente tagliati con linee austere e colori audaci, incluso un tubino rosso gamberetto e un completo lilla, mentre passeggia nell’atmosfera greige delle guglie del Duomo. (Greige, coniato dallo stilista Giorgio Armani, è la compresenza di grigio e beige nella stessa tonalità.) Ogni nodo narrativo nella trama corrisponde a un cambio di look. Mentre la protagonista si lascia trasportare dalla passione e dalla lussuria, anche i suoi vestiti si trasformano, assumendo colorazioni sempre più intense. Anche se gli abiti stessi potrebbero non portare l’etichetta Made-in-Italy, sono parte integrante del tessuto drammatico del film. Con l’abile assistenza dello stilista Raf Simons, il guardaroba di Swinton subisce una straordinaria reinterpretazione della moda degli anni ’60 e ’50. Forme sartoriali neutre e chiare di lilla, rosa e beige sono riservate alla persona pubblica della protagonista, come quando passeggia per le strade di Milano o partecipa a cene ufficiali con figure illustri. Tuttavia, i toni infuocati del rosso e dell’arancione in un paio di pantaloni o in un semplice abito rappresentano le sue emozioni più private, intime e scandalose, soprattutto quando assaggia un piatto preparato dal suo amante, Antonio, e vive con lui il culmine della passione. Alla fine, gli abiti assumono un tono più scuro e pesante di nero nel finale del film, rappresentando il climax del tumultuoso viaggio della storia.
Ma è con il successo al botteghino Chiamami col tuo nome (2017) che Guadagnino rende omaggio a una lunga storia della moda italiana. Sullo sfondo di Crema ( Lombardia), porta in scena i capi d’abbigliamento più iconici degli anni ’80 italiani: polo a righe, bermuda al ginocchio e lo stile degli occhiali da sole neri del decennio, una scelta felliniana che cita La Dolce Vita.
L’età d’oro del cinema italiano è stata, col senno di poi, un momento relativamente fugace piuttosto che un vero indicatore di prosperità. (Non è tutto oro quel che luccica.) Sia il cinema che l’industria della moda hanno subito trasformazioni radicali e si sono allontanati l’uno dall’altra, ma l’eredità del marchio “Made in Italy”, sinonimo di grazia e stile, non potrà mai essere rimossa dal contesto cinematografico di quest’epoca.