Sono nato a Firenze, ho studiato recitazione a New York e poi mi sono trasferito a Roma quando avevo poco più di vent’anni. Ho preso un appartamento che non potevo permettermi, proprio nel centro della città, ci ho lasciato i bagagli, ho consultato la mia lista dei migliori caffè, sono andato nel più vicino, ho divorato un maritozzo alla velocità della luce e poi mi sono chiesto: “Ok, e adesso?”
Nei mesi successivi ho visto tutti gli spettacoli teatrali e i film italiani moderni che ho potuto, solo per rendermi conto che Roma non se la passava troppo bene: “nessun Fellini all’orizzonte”, pensavo. A questo punto ero già un po’ disperato. In un bellissimo appartamento in centro, ma comunque un po’ disperato. “Che fare? Dovrei restare o andarmene? Non può essere tutto qui, vero? Dove sono tutti quei veri giovani attori e registi italiani che ero convinto avrei incontrato?” – mi chiedevo tutto questo mentre sorseggiavo Spritz, che quella estate avevano sostituito l’acqua.
Alla fine sono rimasto a Roma e poco dopo qualcuno mi ha detto dove la maggior parte dei “veri giovani attori e registi italiani” passavano il loro tempo: lontanissimi dal palcoscenico e ancora più lontani da un set cinematografico. Ho scoperto che sia il teatro che il cinema stanno attraversando una specie di crisi qui in Italia al momento, e tutti quei grandi spettacoli e film degli anni ’70 sembrano ormai un lontano ricordo. Perché? Pochi investimenti: “Niente soldi. E senza soldi, niente rischi. Senza rischi, niente spettacoli e film veramente buoni”. Questo è quello che mi ha spiegato controvoglia un agente di talenti, che ho braccato e incastrato in un bar, davanti a un bicchiere di vino quell’agosto.
Ma avevo deciso di restare e intendevo farlo non importa quanto disastrosa e scoraggiante potesse essere effettivamente la situazione delle arti dello spettacolo a Roma. Quindi, per cominciare, ho preso un altro appartamento, per ridurre le spese. Altrettanto bello e centrale, ma senza riscaldamento o aria condizionata, così sarebbe stato più economico. Inoltre, come ogni attore che si rispetti alla fine fa, ho trovato un lavoro come cameriere.
I mesi successivi sono stati difficili ma, col senno di poi, anche un po’ romantici: mi alzavo la mattina, infilavo un paio di pantaloni su misura rubati dall’armadio di mio padre a Firenze e una maglietta macchiata (bisogna mischiare un po’), andavo nel mio posto preferito per la colazione, mi sedevo, ordinavo “il solito” e mandavo un migliaio di email per i provini. Tornando a casa, mi fermavo al mercato e compravo verdura fresca che potevo iniziare a cucinare per pranzo mentre facevo pratica di recitazione. La sera, poi, servivo ai tavoli. Poi andavo a letto. Poi mi svegliavo e ripetevo. Quell’agente poteva aver ragione nel dire che il teatro e il cinema italiano non sono in buona forma, ma io sarei stato uno di quelli che avrebbero cambiato le cose.
Per diventare “uno di quelli”, però, è sempre utile trovare prima gli altri “quelli”. E finora non ci ero riuscito. In effetti, l’unico vero rapporto che avevo sviluppato fino a quel momento era quello con la città stessa. Con Roma. La mia unica compagna nelle mie routine durante tutto il mio primo anno qui. Tanto che avevo persino iniziato a parlarci: ai suoi mattoni, alle sue pietre, alle sue colonne, alle sue chiese, cavolo, persino ad alcune delle buche nella strada. Gli parlavo – il che suona folle, lo so, ma non lo è poi così tanto se pensi che tutti questi pezzi di materia inorganica (proprio questi, non altri al loro posto) hanno visto, toccato, sentito Michelangelo mentre passava circa 500 anni fa, e poi Bernini e Goethe, e Rilke ed Eleonora Duse dopo di loro, e Pasolini e Bertolucci e molti altri. E ora stavano assistendo a me. Così ho colto l’occasione e ho parlato loro come si farebbe con un saggio amico che ha visto tutto. Perché Roma ha visto tutto, è stata una parte importante di tutto, della storia dell’arte.
Ma proprio prima di impazzire completamente (come la signora dei gatti o il tipo che dà da mangiare ai piccioni) parlando con le pietre, ho finalmente incontrato qualcuno di interessante. Un giovane attore. Un “vero giovane attore”. Intendo, qualcuno che insegue questo sogno per le giuste ragioni: motivi che derivano principalmente da una sorta di vocazione e non meramente da un bisogno di attenzione. E lui mi ha presentato il suo amico, un poeta. Un vero poeta in carne e ossa! Che, di questi tempi, è come incontrare un unicorno o, non so, Batman. Attraverso Lui, poi, ho incontrato una ragazza con cento lauree in filosofia che era inseparabile, come una gemella siamese, da un’altra ragazza anche lei incredibilmente ferrata in filosofia… e con tutti loro, e con molti altri giovani che abbiamo conosciuto, abbiamo finito per formare una specie di “banda”, un gruppo dove le lotte professionali che affrontiamo tutti funzionano come colla che ci tiene insieme. E questo nostro gruppo fa parte di una comunità fatta di migliaia, davvero, una comunità di giovani artisti italiani “emergenti”.
Uno sforzo tremendo per rimanere “a galla”.
Uno sforzo tremendo per “emergere”.
Ma per il viaggio ci siamo l’un l’altro, e abbiamo Roma, dove le arti dello spettacolo e tutte le arti potrebbero aver visto tempi migliori di questi, certo, ma sono ben lontane dall’essere morte. Ci vuole molto più che una mancanza di soldi per uccidere l’arte, un coltello molto più affilato per fermare il battito del cuore di Roma. E noi, queste migliaia di dediti che abitano la città, ne siamo la prova vivente.
Quindi se mai passi di qui e dai un’occhiata in questi meravigliosi caffè, bar e ristoranti, potresti beccarci lì. Ci riconoscerai: di solito fumiamo un sacco, e almeno uno di noi indossa un dolcevita nero. E se quello che dice Fran Lebowitz: “Sai come si chiama quando gli artisti fumano e chiacchierano nei bar e nei ristoranti? Si chiama la storia dell’arte” – se questo è vero, allora è proprio quello che staresti guardando, dritto in faccia: la storia dell’arte italiana.