È una splendida giornata di sole di luglio e sono in spiaggia. Il cielo è azzurro, la sabbia è calda, una leggera brezza soffia dal mare o, meglio, “dall’oceano”, come la mia amica Kate, in visita da Boston, continua a chiamare erroneamente le placide acque del Mar Tirreno di fronte a Santa Marinella.
Probabilmente per dimostrare a se stessa che si è davvero impegnata a trascorrere tutta l’estate lontano da casa, non ha ancora prenotato il biglietto di ritorno. Mentre ci godiamo l’ombra del nostro lussuoso ombrellone da dodici euro, la prendo in giro sul fatto che, essendo americana, dovrebbe visitare tutte le città europee in un tour vorticoso invece di oziare in spiaggia con me. Lei incassa il colpo, sorride e contrattacca: “E tu non dovresti indossare uno Speedo in questo momento, come tutti gli altri ragazzi italiani!”.
Ed eccolo, uno dei tanti cliché dello starter-pack made in Italy che, in questo caso, potrebbe avere un fondo di verità: dalle spiagge affollate di Rimini alle coste appartate delle isole Eolie, gli uomini di questo Paese amano davvero i loro speedos (costumi in slip). Un rapido sguardo intorno a noi le dà ragione: non devo concentrarmi molto per scorgere un papà che gioca con la figlia, un gruppo di anziani che passeggia sul bagnasciuga, una coppia di adolescenti che gioca a pallavolo in acqua. Tutti in slip da bagno. Slip piccoli, succinti, rivelatori.
Chiedo a Kate se si tratta di uno spettacolo insolito per lei, considerando che la maggior parte dei Paesi anglofoni trova gli speedo imbarazzanti, se non addirittura inquietanti – con l’eccezione dell’Australia, ovviamente, che li ha inventati nel 1914, più di un secolo fa. YouTube è pieno di video di ragazzi americani che “provano uno speedo in pubblico per la prima volta”, ma gli uomini italiani li indossano da decenni con molto meno clamore.
In realtà, ogni nazione è piuttosto critica al riguardo. Il Brasile ha la sua versione, il sunga, ed è la scelta più popolare sulla spiaggia di Ipanema. In Francia, invece, le rigide linee guida sull’igiene e il benessere pubblico prescrivono l’uso dello speedo nelle piscine comunali, perché i pantaloncini da bagno larghi raccolgono polvere e sporcizia. In Italia, invece, sembrano essere una pura questione di stile.

Sebbene lo speedo sia stato a lungo il costume da bagno preferito dagli atleti e dai nuotatori agonisti, in Italia ha preso piede come scelta stilistica solo negli anni ’60 circa. Fu in questo periodo che lo slip da bagno iniziò a guadagnare popolarità sulle spiagge europee, in particolare in paesi come l’Italia, dove, con il cambiamento degli atteggiamenti verso il pudore, i modelli di costumi da bagno divennero più succinti e aderenti al corpo; la cultura balneare e la moda stavano diventando sempre più influenti.
Pier Paolo Pasolini, uno dei primi sostenitori del costume striminzito, aveva già avvicinato la comunità artistica e intellettuale a questo indumento. Una serie di ritratti dello scrittore in riva al Tevere – scattati da Toti Scialoja nel 1950, quando ancora si poteva nuotare nel fiume – sono famosi non solo per il corpo armonioso di Pasolini, ma anche per la scelta di un certo costume da bagno. Qualche anno dopo, all’epoca della Dolce Vita, Marcello Mastroianni e Alain Delon sfoggiavano spesso lo speedo al mare, tra sfarzo e glamour.
Nel 2006, uno spot di Dolce & Gabbana con David Gandy in slip da bagno bianchi davanti ai faraglioni di Capri è entrato nella coscienza collettiva: lo spot è spesso rivisitato online e ha raggiunto oggi uno status di culto. Lo spot ha trasformato Gandy in una divinità e ha riaffermato il legame italiano tra mascolinità e speedos, un’associazione che non si traduce negli Stati Uniti, patria di Kate.
Nelle estati di oggi, come in quelle degli ultimi sessant’anni, le pagine delle riviste di gossip italiane sono affollate di foto di celebrità italiane che indossano slip da bagno, dai politici agli attori, dai conduttori televisivi ai calciatori, dal cantante e icona della moda Mahmood allo stilista Giorgio Armani, inguaribile amante degli speedo che ne disegna anche alcune versioni di lusso.
“Ma perché?” Kate mi lancia uno sguardo indagatore. “Perché li indossi?”.
E capisco subito che ci intratterremo per tutto il pomeriggio.
“Credo che vadano bene per prendere il sole, se ti interessa. Sono comodi, tengono tutto a posto. E si asciugano rapidamente”, rispondo.
Io stesso uso gli speedo per nuotare, perché l’alternativa dei pantaloncini ingombranti rende i movimenti in acqua piuttosto scomodi. “In ogni caso, meglio gli speedo che indossare i pantaloncini con le mutande sotto come tutti quegli adolescenti di qualche anno fa… E ricordate: gli speedo bianchi solo se siete David Gandy!”.
Kate ridacchia. “Beh, trovo rinfrescante vedere tanta diversità e body positivity”, osserva, in tutto il suo ottimismo americano. Depilati o pelosi, con la pancia da birra o con un six pack, gli uomini italiani sembrano essere piuttosto a loro agio nel mostrare il proprio corpo, indipendentemente dall’età o dalla taglia.
“Ora, per favore, non dire nulla sul fatto che siamo abituati a esporre il nostro corpo, con tutti quei dipinti di uomini nudi nelle nostre chiese e nei nostri musei… Se nomini Michelangelo, mi metto a urlare”, continuo a stuzzicarla.
Ma l’attuale rapporto tra gli italiani e gli speedo è un po’ più problematico di quanto Kate possa immaginare. Se è vero che negli anni ’80 e per buona parte degli anni ’90 era il tipo di costume da bagno maschile più diffuso, le cose oggi sono cambiate. Gli italiani più giovani non li indossano più così comodamente come i loro padri e zii del boom economico.

Come tutto il resto, anche il beachwear è stato fagocitato dalle guerre generazionali, e gli speedo sono ora guardati con sospetto soprattutto dai Millenials e dai Gen Z. Se possono essere considerati un simbolo di body positivity, possono anche essere letti come l’eredità di una cultura maschilista ormai quasi estinta nel Paese. E un’esibizione di fiducia in se stessi può rapidamente trasformarsi in un’odiosa ostentazione di mascolinità tossica: in quale campo rientri Gandy è difficile dirlo.
Pensando al concetto di “virilità”, alla fine tiro fuori un altro aspetto degli speedo che Kate non ha ancora menzionato, probabilmente per educazione: “Poi, naturalmente, c’è la popolarità dello speedo nella comunità gay… Ma questa è una questione universale, non solo italiana”. Fino alla conversazione con Kate, non avevo capito che lo stereotipo culturale degli uomini italiani che “sembrano gay” andava di pari passo con quello dello slippino.
In molte parti del mondo, la comunità gay ha abbracciato gli speedo come simbolo di autoaffermazione fin dagli anni ‘60 e il fatto che all’epoca della loro comparsa fossero considerati scandalosi e immorali ce li rende ancora più cari. Gli slip da bagno ci servono bene, combinando orgoglio, libertà e un alto grado di sexyness in un piccolo pezzo di stoffa.
Tornando all’idea di mascolinità tossica, la parte della popolazione maschile italiana forse più omofoba indossa lo stesso tipo di costume da bagno che noi gay usiamo per rimorchiare, o almeno farci notare: è una dicotomia ironica. Poi, naturalmente, va detto che ci sono anche quelli – soprattutto delle generazioni più anziane – che li indossano solo per abitudine, felicemente ignari delle implicazioni culturali/politiche del loro abbigliamento da spiaggia.
Invariabilmente, un’eccessiva ostentazione della mascolinità è destinata a sfumare alcuni confini, come quelle sculture di atleti muscolosi commissionate sotto il fascismo, destinate a instillare il culto della “vita sana” nella popolazione maschile, che oggi assomigliano più all’arredamento in stile camp di una sauna gay.
Il sole sta tramontando. È l’ora dell’happy hour e il bar vicino sta suonando la hit estiva “Mon Amour” della cantante pop italiana Annalisa.
“Ho visto lei che baciava lui / Chi bacia lei, chi bacia me / Mon amour / A chi baci tu?”, dice la musica. “Sexy boy, sexy boy…”.
Non poteva esserci canzone migliore per concludere la mia chiacchierata con Kate. Mentre raccogliamo le nostre cose per andare a casa, rido segretamente: ho indossato il mio speedo rosso per tutto questo tempo, nascosto sotto il mio costume da bagno meno appariscente. Non volevo dare a Kate questa soddisfazione.
Ma non ha tutti i torti: in Italia, meno ci vestiamo in spiaggia, più riveliamo non solo il nostro corpo, ma anche la nostra cultura.