È una narrazione ricorrente quella che prevede una Napoli attraversata solo da solo due stagioni e non quattro: l’inverno e ‘a staggione. Già, qui non la chiamiamo “estate”, ma ‘a staggione: un sostantivo comune si fa proprio, diventa un guanto che si adatta alle forme della città, che uniforma i mezzi tempi, appiattisce i ritmi e dilata i mesi. A Napoli ‘a staggione non inizia il giorno del solstizio d’estate come in ogni altro luogo, ma quando ci si tuffa a mare, quando arriva la voglia di una granita ghiacciata o alla prima afosa notte insonne.Raffaele La Capria, che ha vissuto per vent’anni a Palazzo Donn’Anna, diceva che la sua estate iniziava quando sentiva i colpi degli operai che ripristinavano le palafitte di Bagno Elena – primo stabilimento balneare di Napoli, nato con il nome di “Bagni marini” e nel 1899, a Italia ormai unita, battezzato “Bagno Elena” in onore della moglie del futuro re d’Italia Vittorio Emanuele III.
“La punta aguzza penetra nella sabbia a dunette del fondo, ogni colpo è una pietra che cade nel lago azzurro del mattino […]. Può dire dalle vibrazioni di quei colpi nell’aria com’è fuori il tempo, e sente la grande giornata ferma sulla città, il palazzo che naviga nel mare, la luce che preme sulla finestra e scoppia dalle fessure delle imposte. Apre gli occhi. Oscilla sulla parete bianca il grafico d’oro, trasmette irrequieto senza soste il messaggio: è una bella giornata – bella giornata. (Raffaele La Capria, “Ferito a morte”)
Io, nata e cresciuta nell’entroterra del Gargano, non ho potuto vivere l’estate partenopea durante gli anni dell’adolescenza: riuscivo solo a immaginarla, a leggerne sui libri di Elsa Morante, di Benedetto Croce o di La Capria stesso, alimentando i miei sogni di gloria. Quando appena diciannovenne mi sono trasferita a Napoli per studiare, ho cominciato a capire cosa rappresentasse ‘a staggione per chi era nato lì: lunghe passeggiate a prima mattina sul lungomare, il profumo della salsedine che, a volte, s’infiltrava fino a Piazza Mercato, il caldo che arrivava in anticipo mentre mia madre mi mandava foto dal mio paesino coperto di neve – e gioivo perché mi veniva finalmente risparmiata quella tortura – la dolce sofferenza per l’afa del luglio napoletano, le notti insonni abbracciata al ventilatore, le finestre di casa perennemente aperte in cerca di un refolo di vento, le granite al limone che sostituivano i pranzi e le cene.
Perciò, perché mi manca un pezzetto del puzzle, mi è sembrato più evocativo raccogliere i racconti di quelle persone che a Napoli ci sono nate e cresciute,ricordi d’infanzia e di giovinezza spesso legati ai momenti trascorsi con i nonni, con i genitori, con gli amici. Parlando con loro mi sono resa conto che la matrice emozionale connessa all’idea dell’estate napoletana non si riduce solo alla presenza del mare o al clima benevolo, ma alle intenzioni, alla scelta di una traccia come immagine d’elezione di quei momenti. Il fil rouge che lega tutte queste storie è l’amore assoluto per Napoli, per le cose semplici, la nostalgia dolce per un tempo passato che è ancora così vivido da essere doloroso. Ma cosa rende tutte queste storie specificamente napoletane? La risposta è difficile, si tratta di definire un intero universo, ma mi aiuto, ancora una volta, con le parole di La Capria: “Nascere a Napoli comporta sempre un pedaggio da pagare […] per il semplice fatto di essere nato a Napoli, l’aggettivo napoletano viene imposto come un marchio di fabbrica […] Una cosa è parlare di Napoli, un’altra cosa è essere parlati da Napoli”.

Photography by Gina Spinelli
Alla domanda: “Cos’è stata per te ‘a staggione?” in molti mi hanno risposto schiudendo la cortina della memoria. Queste sono le loro storie, intime narrazioni che disegnano una mappa emotiva di una città che prima di mostrarsi si fa “sentire”, una città di cui ci illudiamo di parlare, che ci sforziamo di definire, ma che è, in realtà, regista autonoma di se stessa e delle vite di chi la incontra.
Alessandra, per esempio, ricorda: “Associo l’estate napoletana a un’amica che viveva a Posillipo. Abitava in un palazzo nobile con una discesa a mare privata. All’epoca, durante i primi anni del 2000, non si potevano ancora affittare le canoe, quindi se si voleva andare a fare un tuffo a Posillipo o si doveva avere casa lì o si rinunciava, soprattutto se sprovvisti di motorino. Ai piedi del palazzo avevano ricavato una piscinetta naturale d’acqua di mare, passavamo lì dentro giornate intere a guardare Capri e il Vesuvio. E poi mi ricordo i falò alla Gaiola: la notte, le stelle, la luna, le onde a due passi…ti sentivi parte di una cosa grande, selvaggia, ma a portata di mano”.
E lo stesso mi racconta Ciro, intrecciando il suo ricordo con la figura della madre: “L’estate napoletana è spensieratezza ed è indissolubilmente legata alla mia famiglia e alla spiaggia di Mergellina. Mia madre, quando io e mia sorella eravamo piccoli, finiva di lavorare in mattinata e ci portava al mare. Eravamo sempre noi tre perché mio padre lavorava fino a tarda serata. Mi ricordo che prendevamo l’autobus a Santa Lucia, il 140, che ci lasciava proprio lì. In fin dei conti, mamma, con poco e niente, ci dava tutto: una sedia di plastica presa in spiaggia a 1€, un Super Santos e tanti tuffi, e questo bastava per stare bene. Sono molto legato a Mergellina: i miei genitori sono napoletani doc da generazioni, sono cresciuto lì”.
Quando si tratta di ricordi, spesso, i genitori sono le figure più presenti. Ma non le uniche. Robbie mi ha regalato un pezzo di sé molto prezioso, per cui – lo dico senza vergogna – abbiamo pianto insieme: “L’estate coincideva con l’adrenalina degli esami universitari. Passavo le giornate a studiare, a suonare, ad ascoltare dischi nella mia cameretta. Ma c’è un ricordo che più di tutti mi commuove: prendere il treno della Circumvesuviana con i miei nonni e andare a Sorrento. Lì, insieme a loro, sentivo il profumo dei gigli, l’odore che preferisco al mondo perché mi ricorda loro. I miei nonni sono stati la parte migliore di me. Se ci penso mi salgono le lacrime agli occhi. Mi mancano tantissimo”.
La mamma, i nonni, insomma, la famiglia. Spesso, a Napoli, queste figure si legano al cibo, alle tradizioni culinarie, alcune delle quali sfilacciate nel tempo. Pasquale lo descrive bene quando mi racconta: “Io che abito nella periferia di Napoli definisco l’estate partenopea con la salsa di pomodoro fatta in casa, ‘e butteglie ‘e pummarola. Piantiamo i pomodori nelle nostre terre e li raccogliamo a metà luglio, poi tutta la famiglia si riunisce per portare avanti una tradizione a cui teniamo moltissimo, specialmente mio padre. Si tratta di un vero e proprio rito di cui vogliamo conservare la memoria: il profumo terroso dei pomodori cotti, il cozzare delle bottiglie di vetro vuote nel pentolone, le sveglie all’alba, la pazienza e poi, finalmente, il primo piatto di spaghetti col sugo di pomodoro fresco. La perfezione della semplicità”.

Photography by Gina Spinelli
Non mi ha sorpresa scoprire che Pasquale non fosse l’unico a parlare di cibo e famiglia. Anche Anna e Mario hanno ricordi simili, la prima, in versione romantica, il secondo, con un’accezione gioiosa e al tempo stesso malinconica. Anna mi racconta: “Per me il simbolo dell’estate napoletana è la percoca nel vino. Perché? Perché, prima di tutto, l’una è buona senza l’altro e viceversa, ma insieme creano una storia senza precedenti; due, perché è un must della napoletanità quella vera, rappresenta le nostre origini e il nostro presente ed è un abbinamento tutto nostro, sicuramente sconosciuto ai turisti; e tre, perché gli do un valore affettivo legato al mio compagno: io sono la sua percoca e lui è il vino della mia vita. Stiamo bene da soli, ma insieme si crea un incastro magico”.
E Mario: “Il vino con la percoca è la sangria partenopea. Mi ricorda mio nonno, che me lo fece assaggiare per la prima volta come regalo di compleanno dei miei cinque anni. Non era la prima occasione in cui provavo qualcosa di alcolico, il nonno mi aveva già iniziato tempo prima curandomi il mal di denti col whiskey e il limoncello”.
E poi una suggestione che sembra quasi l’inizio di un romanzo. A schiudere i suoi ricordi è Biagio: “Forse il mio è un ricordo un po’ peculiare, ma ‘a staggione per me significa schiena sudata. Le mie estati a Napoli sono iniziate quando avevo quindici anni: con il primo treno della mattina raggiungevo gli amici in centro, scendevo di casa con uno zainetto pieno di cianfrusaglie; quasi sempre però portavo anche una maglietta di ricambio. Soffrivo, e soffro tuttora, molto il caldo, quindi la passeggiata da casa alla stazione – dieci minuti esatti – mi chiazzava la maglietta sulla schiena. Con l’aria condizionata dei vagoni passava tutto, il sudore si asciugava e io quasi mi addormentavo, ma non appena mettevo fuori il naso dal treno ricominciavo a sudare. Non andavo però al mare con gli amici, preferivamo fare lunghe passeggiate raccontandoci l’inverno scivolato in fretta, dimenticando le cose più importanti e concentrandoci sugli innamorati. Era una cosa dolceamara perché io non mi innamoravo mai”.
Forse la risposta più contemporanea alla domanda è quella di Antonio, che ha condensato in poche parole tutto lo spirito dell’estate napoletana di oggi: “I taralli caldi e una bella birra ghiacciata sugli scogli. Si può dire sia quasi la merenda preferita estiva di chi frequenta la zona del lungomare. Non c’è niente di meglio che sedersi con i piedi quasi nell’acqua, sorseggiare qualcosa di fresco, rosicchiare un tarallo sugna e pepe e perdersi nel profilo di Capri che galleggia sull’orizzonte”.
Queste sono solo piccole storie, forse insufficienti a fare onore a tutte le sfumature d’ ‘a staggione. Se è vero che parte di ciò che mi piace fare consiste nel creare storie che non esistono, nel ricamare su un’impuntura, intorno a un gesto o a una qualsiasi ispirazione passeggera da cogliere e fissare con le parole, tuttavia è vero anche che i racconti reali sono spesso quelli che più mi emozionano. Il privilegio di accoglierli e di modellarli per farli conoscere al mondo è una delle fortune più grandi a cui una persona che scrive possa aspirare. Napoli è la mia casa – la casa che ho scelto – e ascoltare le nostalgie di chi ci è nato me la fa amare, se possibile, ancora di più, perché mi permette di vivere ciò che non ho vissuto, di immaginare una città che non era ancora mia e di capire che quella scelta, infine, non è stata frutto del destino, ma di puro istinto.