Nella notte tra il 14° e il 15° gennaio 1968, una potente sequenza di terremoti colpì la Sicilia occidentale, radendo al suolo diverse città della zona e danneggiandone molte altre.
La maggior parte degli edifici, principalmente case fatte di tufo, crollarono sotto la potenza dello shock sismico, mettendo in luce il drammatico sottosviluppo della regione.
I soccorsi furono difficili e non sempre ben coordinati. La possibilità di muoversi tra le città era stata gravemente interrotta con intere strade inghiottite dalla terra. Veicoli e camion continuavano a rimanere bloccati nel fango causato dalle forti piogge. Il freddo era pungente. Uno dei piloti impegnati nelle attività di ricognizione disse di aver assistito a quello che pensava fosse “uno scenario da bomba atomica”.
La ricostruzione, che è stata spesso criticata, ha richiesto decenni. Alcuni villaggi sono stati semplicemente abbandonati dai molti che sono emigrati, mentre alcune città sono state alla fine ricostruite in nuove località, come Gibellina.
All’indomani del terremoto, Ludovico Corrao, allora sindaco di Gibellina, chiese ad alcuni dei più rinomati architetti e artisti italiani di aiutare a ricostruire la città. Carla Accardi e Pietro Consagra, entrambi siciliani, risposero immediatamente. Molti altri si unirono a loro nel corso degli anni: Mario Schifano, Toti Scialoja, Mimmo Paladino, Alighiero Boetti e Arnaldo Pomodoro, tutti realizzarono sculture pubbliche o opere che ora sono conservate nel museo d’arte contemporanea di Gibellina. La città divenne un laboratorio di sperimentazione artistica, dove gli artisti lavoravano a stretto contatto con la popolazione locale.
Tra quelli invitati a contribuire c’era Alberto Burri, già noto e riconosciuto a livello internazionale. Le sue opere realizzate negli anni ’50 manipolando sacchi di juta e bruciando le superfici di legno e plastica lo avevano reso un pioniere del movimento Arte Povera. Negli anni ’70 aveva iniziato a realizzare una nuova serie intitolata Cretti, opere che assomigliano alle crepe nel terreno argilloso secco.
Burri ricorda il suo primo viaggio a Gibellina: “Quando sono andato a visitare il posto, in Sicilia, la nuova città era quasi completata ed era piena di opere. ‘Qui non farò niente di sicuro’, ho detto subito, ‘andiamo a vedere dov’era una volta la vecchia città’. Era a quasi venti chilometri di distanza. Ero davvero colpito. Mi veniva quasi da piangere e l’idea mi è venuta subito: ‘qui, qui sento che potrei fare qualcosa’. Farei così: comprimiamo le macerie che sono un problema così grande per tutti, le armiamo bene, e facciamo un’immensa crepa bianca di cemento, così che rimanga un ricordo perenne di questo evento”.
Il Grande Cretto iniziato nel 1984 fu interrotto quattro anni dopo per mancanza di fondi. Fu completato solo nel 2015, in occasione del centenario della nascita dell’artista.
Grazie all’intervento dell’esercito, le macerie furono raccolte con bulldozer, compattate e tenute insieme da reti metalliche. Il cemento bianco fu versato sui blocchi, che seguivano l’originale disposizione urbanistica.
Mentre alcune delle sculture pubbliche di Gibellina sembrano imponenti e hanno poca rilevanza per l’area – molte critiche hanno condiviso questa nozione – l’opera di Burri mantiene una forte aderenza con l’ambiente circostante e con la storia.
L’opera segue l’inclinazione naturale della collina su cui sorgeva la vecchia Gibellina, così che sembra far parte del paesaggio naturale, come se fosse fatta di marna, la stessa roccia bianca che ha reso così famose le scogliere nelle parti meridionali della regione. Visto dall’alto, il Grande Cretto assomiglia alla disposizione geometrica delle saline che abbondano in Sicilia.
Camminare attraverso il labirinto silenzioso delle sue strade senza nome è un’esperienza tra la visita alle rovine di Pompei e il Memoriale dell’Olocausto di Peter Eisenman a Berlino: altri due luoghi che affrontano il lutto cristallizzando lo.
L’arte contemporanea ha spesso visto nel cemento un materiale eletto per erigere monumenti agli innumerevoli orrori del XXI secolo, allo stesso modo in cui la cera era usata nell’antichità per registrare la somiglianza del corpo umano per sculture ed ex-voto.
Dolcemente monumentale, l’opera di Burri ha il carattere ineffabile di un corpo assente, conservando ricordi mescolati con detriti, coprendoli con una colata di cemento, come neve fresca che protegge nuovi semi in inverno.
In modo delicato ma ben definito, il Grande Cretto elabora il dolore di un’intera comunità, dimostrando ancora una volta il potere curativo dell’arte.