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Napoli e la Settima Arte

“Purtroppo, Napoli non è solo divertirsi un mondo.”

Un vassoio per la colazione con frittelle, salsa e una tazza su un letto disordinato in una stanza d'albergo a luce soffusa; lampada sul comodino, loghi a destra. Hotel d'Inghilterra Roma, Starhotels Collezione - Vassoio per la colazione con pancake, sciroppo e frutti di bosco su un letto stropicciato in una camera elegante.

Tra tutte le città italiane, Napoli è probabilmente quella la cui vita è più piena di contrasti. E se c’è una cosa che dovresti sapere sui contrasti, è che fanno un figurone sul grande schermo… come pure a teatro.

Fin dal dopoguerra, la grande tradizione teatrale di Napoli, ripresa e affinata dal drammaturgo Eduardo De Filippo, è stata spesso trasposta sul grande schermo. Il fratello di Eduardo, Peppino, recitava spesso accanto all’eroe comico nazionale Antonio de Curtis (noto anche come Totò), dando vita a un’infinita lista di film con questo duo.

Ambientato a Napoli nel 1890, Miseria e nobiltà (Poverty and Nobility, 1954) è basato su un’opera teatrale del padre di Eduardo e Peppino, Eduardo Scarpetta. Il film contiene una delle scene più godibili della cinematografia italiana: Totò affamato che si abbuffa di manciate di spaghetti fumanti mentre balla sul tavolo e si riempie le tasche di pasta.

È un’immagine di Napoli che, per quanto cliché, gode ancora di grande popolarità.

L’estrema umanità della popolazione cittadina, il suo esuberante godimento della vita, le tradizioni e le superstizioni sono tutti ottimi soggetti per sceneggiature – quest’ultimo in particolare nel film di Paolo Sorrentino È stata la mano di Dio (The Hand of God, 2021), nominato come Miglior Film Internazionale agli ultimi Academy Awards.

Anche 68 anni dopo la sua uscita, L’oro di Napoli (The Gold of Naples, 1954) di Vittorio De Sica è un saggio aggraziato e leggero sulla più nobile abilità dei napoletani: l’arte di arrangiarsi (l’arte di cavarsela). Ognuno dei sei episodi che compongono il film presenta un attore italiano di primo piano che interpreta personaggi e situazioni tipiche della città. Totò interpreta un pazzariello–un artista di strada a metà tra un mimo, un cantante e un cartellone umano–che viene sfruttato da un guappo, un criminale locale. Sofia Loren è una venditrice infedele di pizza fritta; Vittorio de Sica è un conte con problemi di gioco d’azzardo; Eduardo de Filippo interpreta o’ professore, un uomo istruito che dà consigli ai suoi vicini per pochi spiccioli.

Qualche decennio dopo, il giusto titolo di erede di Eduardo de Filippo e Totò è andato all’attore comico napoletano Massimo Troisi, che ha debuttato come regista all’inizio degli anni ’80, conquistando pubblico e critica. Lo stile comico di Troisi, potentemente in dialetto napoletano, intercalato da pause e borbottii, sottolineava le difficoltà di comunicazione di un’intera generazione. Il suo personaggio, una specie di Woody Allen napoletano, si poneva il più lontano possibile dalla cultura machista tipica del Sud del Mediterraneo.

No grazie, il caffè mi rende nervoso, (No grazie, il caffè mi rende nervoso, 1982), Scusate il ritardo (Scusate il ritardo, 1983) e Pensavo fosse amore… Invece era un calesse (Pensavo fosse amore… Invece era un calesse, 1991) – tutti ambientati a Napoli – presentano Troisi come l’anti-eroe perfetto: irrimediabilmente nevrotico, patologicamente timido, ma anche sensibile e gentile.

Purtroppo, Napoli non è solo divertimento. La città è stata storicamente afflitta da povertà e criminalità sistematica, che allontanano rapidamente qualsiasi stereotipo come pizza, pasta e mandolino. È il peggior contrasto di tutti.

Anche se La Pelle di Liliana Cavani La Pelle (La Pelle, 1981) non eguaglia la complessità e la forza narrativa del romanzo semi-autobiografico di Curzio Malaparte su cui si basa, il film rimane comunque uno sforzo lodevole.

Cavani segue da vicino le immagini grottesche descritte nel libro – che fu rifiutato dai napoletani e bandito dalla Chiesa quando fu pubblicato per la prima volta nel 1949 – e ricrea i mesi di caos, fame e disperazione di Napoli che seguirono la liberazione della città dal fascismo e l’arrivo delle truppe alleate nei primi anni ’40. Il capitano di collegamento italiano Malaparte, interpretato da Marcello Matroianni, si muove per la città – dai suoi bassifondi e bordelli ai decadenti palazzi dell’aristocrazia e alle sale di guerra – con il cinismo come unica arma per difendersi.

Il trauma della Seconda Guerra Mondiale vissuto dalla popolazione locale è rappresentato anche in un episodio del capolavoro neorealista di Roberto Rossellini Paisà (Paisà, 1946), che mette in scena l’interazione non proprio amichevole tra un orfano scugnizzo, un monello di strada, e un soldato afroamericano; e in Pasqualino Settebellezze di Lina Wertmüller Pasqualino Settebellezze (Pasqualino Settebellezze, , 1975), che ruota attorno alla sopravvivenza in un campo di concentramento. Il film fece vincere alla Wertmüller una nomination all’Oscar come Miglior Regista – la prima donna mai nominata in questa categoria.

Gomorra di Matteo Garrone Gomorra (Gomorra, 2008) è basato sul sensazionale libro dallo stesso titolo scritto da Roberto Saviano nel 2006, che racconta gli orrori della Camorra, la storica organizzazione criminale con base a Napoli. Molte scene sono girate nella periferia di Scampia, nota come centro nevralgico del crimine organizzato e dello spaccio di droga. Il film, che ha dato vita a un suo sottogenere di serie TV, è una riflessione amara sul potente crimine organizzato napoletano e su quella parte della popolazione che ci va a braccetto.

I thriller ambientati a Napoli possono anche prendere una piega assurda. Il Napoli velata (Napoli velata, 2017) di Ferzan Özpetek non ci risparmia nulla: traumi infantili, obitori, traffico di reperti archeologici, omicidi, scambi di identità, avvelenamenti, segreti di famiglia e misteri… c’è persino un duo di lesbiche malvagie.

Non sorprende che il film finisca per essere un esercizio confuso sul tema “Napoli Crimini”. Oltre agli omaggi alle tradizioni della città, dalle femminelle alla stregoneria, l’unica cosa che salva il film è la città stessa. Una volta superata l’imbarazzante sensazione di guardare uno spot turistico, riconoscere le numerose location sullo sfondo diventa un passatempo divertente: il museo archeologico, l’Ospedale degli Incurabili, Castel Sant’Elmo e, infine, la Cappella Sansevero, che ospita la famosa scultura iperrealistica del Cristo velato.

Come al solito, la consolazione finale arriva dal technicolor: It Started in Naples (1960) di Melville Shavelson vede protagonisti Clark Gable accanto a Vittorio de Sica e Sofia Loren all’apice della sua carriera. Nella sua ultima apparizione sul grande schermo, Gable interpreta un distinto avvocato di Philadelphia che va a Napoli per sistemare l’eredità del fratello defunto… e inevitabilmente si innamora di una ballerina di night club.

La trama prevedibile, i numerosi cliché del film sullo scontro culturale e la romanticizzazione di praticamente tutto ciò che è italiano probabilmente faranno storcere il naso a molti. Ma alcune scene e battute divertenti rimettono le cose a posto, compreso Gable che si lava i denti con il whisky perché non si fida dell’acqua del rubinetto, e questo battibecco tra lui e la Loren: “Dovresti davvero imparare a parlare italiano, non è molto difficile”, lo prende in giro lei. “Lo so, la cosa difficile è imparare a pensare in italiano!” risponde lui. Come dargli torto!

Se non sei un fan delle commedie romantiche, ti è concesso saltare alla scena essenziale del film: la Loren che balla e canta “Tu vuò fà l’americano” in un night club a Capri è la risposta italiana a Rita Hayworth che canta “Put The Blame On Mame” in Gilda. Meno glamour, forse, ma molto più divertente!