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Mina attraverso l’obiettivo di Mauro Balletti: la collaborazione di 50 anni che ha definito un’icona

“’Non so, forse soffro di una forma di MINIA’, dice ridendo.”

È stato un incontro fortuito e fortunato, quello tra Mina, l’icona assoluta della musica italiana, e Mauro Balletti, il suo fotografo ufficiale da più di cinquant’anni. Si sono conosciuti per caso nel backstage di un concerto, nel 1972, e da allora non si sono più lasciati. Insieme, hanno dato vita a un sodalizio artistico profondo e rivoluzionario che ha attraversato mezzo secolo di storia della musica, della moda e del costume del nostro Paese. Una foto dopo l’altra, una copertina dopo l’altra, Balletti ha contribuito a costruire il mito e l’immaginario che circonda la Tigre di Cremona, diventando il solo interprete della sua presenza tanto carismatica quanto enigmatica.  

Balletti, dal canto suo, è un artista poliedrico. Introspettivo e curioso, spazia con naturalezza dal disegno alla pittura, dalla fotografia al video, dando a ogni sua opera un’impronta personale e sperimentale. Un approccio che qualcuno ha definito “neorealismo magico”, ma che, al di là di ogni tentativo di definizione, si distingue per una firma e uno sguardo riconoscibili, unici, tanto quanto la musa che ha ispirato gran parte della sua carriera. “Un fuoriclasse”, lo ha definito Massimiliano Pani, figlio di Mina.

Ci sentiamo al telefono in una giornata novembrina. A Milano, la città in cui Balletti è nato, vive e lavora, mi racconta che fuori c’è una coltre di nebbia. “Anche qui a Venezia,” rispondo, trovando in questa coincidenza meteorologica una curiosa complicità. Mi sarebbe piaciuto vederlo, il suo studio: una casa-opificio, colma di disegni, libri e luce, come appare negli speciali dedicati a lui. Balletti è una persona riservata, si definisce “una bestia solitaria” che vive in un tranquillo, prolifico isolamento. “Nella mia vita ho rilasciato pochissime interviste,” confessa. Mentre parla, ho la sensazione di entrare in punta di piedi nel suo mondo. Gli chiedo di raccontarmi la storia dall’inizio e lui, con pacatezza, inizia a tracciare un percorso artistico ricco di suggestioni artistiche e di meraviglia. Una storia di vite intrecciate––la sua e quella di Mina––guidate da un’innata capacità di intuire e di anticipare i tempi. Un’avanguardia silenziosa, ma audace.

La storia comincia con un giovane Balletti, appena ventenne, che viene invitato attraverso un contatto comune nel backstage di un concerto di Mina, e, inconsapevolmente, cambia il corso della sua vita. “Ero già un grande ammiratore di Mina,” ricorda. “L’ho incontrata alla Bussola di Viareggio, dove si stava esibendo in una serie di spettacoli. Durante le prove, la sera prima del concerto, Mina era lì con Gianni Ferrio, suo orchestratore e arrangiatore. Fu allora che la conobbi e nacque subito un’amicizia. All’epoca frequentavo Lettere Moderne alla Statale di Milano e avevo già iniziato a disegnare, ma non ero fotografo. Qualche mese dopo, però, Mina mi chiese di scattarle delle foto per i caroselli della Tassoni, a Salò. Non avevo mai preso in mano una macchina fotografica, ma ho accettato.

Mi feci prestare una Nikon F2 da un amico appassionato di fotografia, che mi insegnò qualche tecnica di base. Quelle foto furono le prime che scattai in vita mia. Nel giro di pochi mesi, vennero utilizzate per le copertine dei dischi Frutta e verdura e Amanti di valore. Così, all’improvviso, mi ritrovai fotografo. Mina è sempre stata così: ha un talento unico per leggere il futuro. È successo anche con me.”

Rugbista

Mauro Balletti proviene da una famiglia con una spiccata vena artistica. Suo padre, come suo nonno, era pittore, e da loro ha ereditato l’abitudine di vivere l’arte come parte integrante della quotidianità. È cresciuto immerso in un ambiente ricco di stimoli, dove il panorama delle arti visive era una presenza costante. “Da piccolo, mio padre mi portava nei cinema d’essai a vedere film che, per un bambino, sarebbero stati alquanto insoliti: opere di Carl Theodor Dreyer, Ingmar Bergman, Sergei Eisenstein, Pier Paolo Pasolini e Federico Fellini. Aveva intuito che ero più attratto dalle immagini che dalle parole. In un certo senso, sono sempre stato in dialogo con le immagini, e comunicare attraverso di esse mi è sempre venuto più naturale che farlo a parole. Quelle esperienze e quelle immagini mi hanno segnato profondamente, creando in me una gerarchia di valori dove il grande cinema occupa il gradino più alto.

Hanno anche gettato le basi per il suo lavoro di fotografo. “Crescendo, ho imparato ad apprezzare anche i grandi fotografi. All’inizio ero un neofita, curioso, e a vent’anni non conoscevo molto del panorama internazionale.” Eppure, riguardando i provini delle sue prime foto a Mina—gli iconici ritratti scattati nel 1973, con una Mina dai capelli corti, biondi e vaporosi e il sigaro tra le dita; scatti che avrebbero anticipato la sua immagine nello show Milleluci con Raffaella Carrà—dice di rimanere ogni volta sorpreso dalla loro precisione tecnica. “Si percepisce che già allora avevo una certa capacità di inquadrare e di comprendere il linguaggio della fotografia. Non posso dire di aver vissuto una vera e propria evoluzione nel mio modo di scattare. Non che fossi già arrivato,  non sapevo a cosa sarei andato incontro, ma avevo fin dall’inizio un’idea chiara del lavoro a cui aspiravo.” 

E poi c’è Mina—una figura che ha saputo incarnare nel tempo un’infinita carrellata di riferimenti artistici, mescolando versatilità, istrionismo e teatralità. Ma perché dedicare un’intera carriera proprio Mina? Gli pongo questa domanda.

“È arte pura. È magnetica. Ricordo ancora le immagini dei caroselli della Barilla, realizzati da Piero Gherardi, lo stesso costumista di Fellini. Erano veri e propri videoclip musicali ante litteram, tra i primi nella storia. Gherardi, con la sua straordinaria immaginazione, aveva trasferito su Mina tutta l’atmosfera felliniana. Quei caroselli mi avevano rapito – e poi c’era la sua voce, il modo in cui cantava. Avevo percepito il suo essere straordinaria ancora prima di conoscerla, ed era esattamente come l’avevo immaginata. Mina è probabilmente la persona più intelligente che abbia mai conosciuto. È una grande futurista. Dopo 67 anni di carriera, è ancora la numero uno.”

Parlando del lavoro per immagini fatto con lei, Balletti lo definisce un “divertimento serio”. Di Mina dice che è un “caleidoscopio pop”. “Mina è un’artista unica. Musicalmente, spazia dal rock alla musica classica: trovami qualcun’altra capace di cantare Sweet Transvestite dal Rocky Horror Picture Show e, subito dopo, un’aria di Puccini. È qualcosa di mai visto nella storia della musica. Dal punto di vista iconico, poi, la sua immagine è incredibilmente pop. Il suo viso è una tavolozza infinita, capace di trasformarsi da Leonardo da Vinci a Picasso, fino ad Andy Warhol. Vent’anni dopo, le grandi dive, da Madonna a Lady Gaga, hanno seguito la strada che Mina aveva già tracciato, giocando con la propria immagine proprio come faceva lei.” 

Per Mina, però, tutto questo – trasformazioni, sperimentazioni, metamorfosi fisiche – è sempre stato un processo ludico. Non un semplice gioco, perché c’era sempre un forte senso di responsabilità legato all’aspetto commerciale, ma un approccio leggero, istintivo. “In questo senso, dico, è stato un “divertimento serio”. La serietà sta nel riuscire a trasformare quel gioco in un prodotto artistico maturo. È un dono. Per me è stato incredibilmente appagante.”

Quando gli chiedo quale sia, secondo lui, una costante del loro rapporto e della loro collaborazione negli anni, la risposta arriva immediata: il desiderio di sperimentare. Di cambiare, di sorprendersi per poter sorprendere. “Abbiamo imparato a usare lo stupore come uno strumento di comunicazione, un mezzo artistico. Lo stupore è la base dello spettacolo, dell’arte e del teatro: senza lo stupore e l’ironia non si possono raggiungere le vette più alte. Per noi, questo processo creativo è sempre stato spontaneo, veniva da dentro. Ed era anche rapido: o funzionava o non funzionava. Mina non poteva essere ingannata, capiva subito se una foto aveva senso. La vera sfida, negli anni, è stata riuscire a sorprenderla, copertina dopo copertina. Sapevo anche che il pubblico aveva aspettative enormi: erano fan fedelissimi, la veneravano. Non potevamo deluderli.”

E poi, nel 1978, appena cinque anni dopo quel primo servizio fotografico, Mina scompare dalle scene. Una scelta drastica, forse nata dal bisogno di lasciare che fosse solo la sua arte a parlare, rimuovendo la persona, la cui fama era diventata difficile da sostenere. Mina sparisce, lasciandosi indietro la voce. 

Ma non solo. Rimane, e anzi si intensifica, il racconto visivo che Balletti, suo fotografo ufficiale, costruisce insieme a lei. Gli chiedo, cosa abbia significato per lui diventare l’unico interprete del suo volto, il filtro visivo attraverso cui lei comunicava la propria immagine, così elusiva, eterea e per questo tanto affascinante. “A dirla tutta, non ci ho mai pensato troppo. Da giovane si è incoscienti, e anche io forse non mi rendevo conto del peso di quella responsabilità. Col tempo, io e Mina siamo diventati quasi fratelli, e questo ha reso tutto più semplice, meno ‘lavorativo’, per così dire. Era un processo naturale. Ora, ripensandoci—sono passati 51 anni!—mi rendo conto dell’importanza di quel ruolo, e mi dico: ‘Cazzo, però!’ Ho imparato a conoscere tutte le sfumature delle sue possibilità visive.”

“La verità è che non ho mai voluto avere l’esclusiva. Negli anni, abbiamo cercato di coinvolgere nuove menti, giovani e magari un po’ folli. Mi interessa che la sua arte resti sempre attuale, anche dal punto di vista iconografico. Per questo, sono sempre alla ricerca di talenti nuovi [nella fotografia e nel design, ndr]. Finora, però, non abbiamo trovato nessuno capace di incarnare quella visione. Sui social ci sono tantissimi giovani—persino bambini—che la interpretano, attratti dal suo volto così particolare, che parla e stimola la fantasia di molti artisti. Mi piacerebbe molto che qualcuno della nuova generazione raccogliesse il testimone e riuscisse a proiettare la sua immagine nel futuro.”

Osservando il viaggio visivo che Balletti ha costruito con Mina, è inevitabile notare i tanti riferimenti all’arte del Novecento: Mina cubista, Mina astratta, Mina dadaista, surrealista, futurista. Gli chiedo se sia vero che, col passare del tempo, il suo lavoro abbia puntato a creare una distanza sempre maggiore tra la persona reale e la sua proiezione visiva. “C’è da dire che la sua voce è un elemento centrale nell’esercizio che descrivi, perché anagraficamente non corrisponde alla sua età. La sua è una voce che resta giovane, quella di una trentenne, ed è qualcosa di straordinario. Per questo anche la sua immagine è rimasta legata a un volto che non è mai realmente invecchiato. È rimasta una variazione del volto che il mondo conosce. Non c’è stata un’evoluzione fisica, ma un continuo legame con quella voce eterna, che è una parte imprescindibile del suo mito.”

Metto da parte per un momento il lavoro fotografico e vado alla sua prima grande passione: il disegno. Anche nei suoi grafismi—molti dei quali sono disegni fatti di linee continue, istintivi, casuali, e profondamente ironici, con figure umane colte in momenti di intima domesticità—, si ritrova la presenza di Mina. Si manifesta sotto sembianze diverse, ma c’è. 

“Inizialmente pensavo che il disegno fosse una fuga da un impegno pittorico più importante. Invece no. Con il tempo ho capito che il tratto netto, deciso, è qualcosa di mio, che mi appartiene ma soprattutto mi diverte. Amo molto disegnare con il pennino e la china: è una sfida, perché non si può sbagliare. Allo stesso tempo, quando inizio, il 90% delle volte non so dove mi porterà quel gesto, seguo la mano come fosse telescrittura. Mina, invece, è un’immagine chiara che ho in testa, una guida, un archetipo che appartiene al mio inconscio da sempre.”

“Non so, forse soffro di una forma di MINIA”, dice ridendo.

“Ci tengo a dire che ho sempre lavorato insieme a Gianni Ronco, un illustratore straordinario, che ha iniziato a collaborare con Mina prima di me, realizzando centinaia di illustrazioni a lei dedicate per la sua rubrica Vanity Fair. Lui ha lavorato spesso sulle mie fotografie e mi ha sempre aiutato con l’aerografo, ad esempio a ritoccare foto collage tipo Rane Supreme e Ridi Pagliaccio e molte altre copertine quando non esisteva Photoshop. Siamo quasi coetanei – lui ha due anni in più – ed entrambi del segno della Vergine: c’è una sintonia particolare tra noi.”

Al di là del disegno, del collage, della fotografia pura, Balletti ha continuato a giocare con l’immagine di Mina anche dopo l’avvento del computer e di Photoshop, che, attraverso il collage a la manipolazione digitale, ha aperto una nuova fase sperimentale, ludica e stimolante. “È stato esilarante reinterpretare la sua immagine anche così e vedere fin dove potevo arrivare ad estendere la sua essenza.”

Una fase che ha portato Balletti anche alla produzione video, con la realizzazione di diversi videoclip innovativi, tra cui quello del brano Neve nel 1992, in cui il volto di Mina è trasformato in un proiettore cinematografico.

“Sì, quella è stata una prima assoluta sotto molti aspetti, sia per la grafica della copertina che per il video stesso. Siamo stati tra i primi in Italia a usare il computer e il 3D per un videoclip. Ti racconto un aneddoto divertente: quando per la prima volta utilizzammo Photoshop per realizzare la cover dell’album, ogni volta che aprivamo l’immagine di copertura – che pesava 32 MB—o dovevamo salvarla, ci volevano sette-otto minuti! Ci dicevamo: ‘Dai, intanto che si salva andiamo al bar e ci beviamo un caffè’. Pensa. Ora sembra impossibile, ma è perché è passata un’era. Comunque, lo stesso approccio futuristico fu adottato anche per il videoclip. Mina cercava sempre il nuovo, così trovammo una professionista nel campo del 3D, una delle prime a Milano a lavorare in questo settore, e fu lei a creare il proiettore con il volto di Mina, che appare nel video.”

Come si traduce questa tendenza alla sperimentazione nell’arte e nel digitale contemporaneo? Balletti sembra anticipare la mia domanda, come se mi avesse letto nel pensiero. “Quest’estate ho deciso di fare un passo in più, spingendomi a usare l’intelligenza artificiale. L’ho applicata alla nuova copertina del disco che uscirà all’inizio del 2025. L’ho utilizzata per creare i paesaggi: trattandosi di un tema marino, non riuscivo a trovare un archivio di immagini che rispondesse all’idea che avevo in testa, quindi ho scelto l’AI per realizzarlo. In fondo, si tratta sempre di una sintesi di immagini esistenti, modificate e reinterpretate. Che tu lo faccia con Photoshop o con l’AI, l’idea rimane la stessa. Così come rimane immutato il principio che fonda tutto questo lavoro e questa ricerca: alla base c’è sempre quello stupore, quello sguardo puro che cerco di suscitare in chi osserva.”

Vorrei concludere parlando di musica, un aspetto che, mi accorgo, dobbiamo ancora esplorare a fondo. Mi interessa scoprire la relazione tra Balletti e il suono, e come questo influenzi la sua pratica. Lui si definisce apertamente un ascoltatore onnivoro, ma subito dopo torna a riflettere sull’opera della sua musa e amica.

“La musica di Mina ha sempre qualcosa di magico. E mentre lavoro, soprattutto quando disegno, mi piace molto ascoltarla. Lei riesce a portare la convenzione dello stupore anche nella musica, e penso che questo accada perché lei è la prima a volersi sorprendere. È sempre stata una persona che ha osato molto, che ha avuto il coraggio di sperimentare, creando sonorità nuove e modi innovativi di emettere il suono. È stata, ed è, una grande sperimentatrice, una rarità nella storia della musica leggera. Non solo. Mina è stata in continua evoluzione––mese dopo mese, anno dopo anno. Mentre altri artisti iniziano e finiscono la loro carriera cantando più o meno allo stesso modo, lei cambia ogni cinque anni. Sperimenta, cambia, proprio come fece Picasso nella pittura. Non si è mai ripetuta, ma ha creato costantemente, esplorando nuovi territori. C’è un grande slancio di coraggio in ciò che fa. Non è solo cantare, è creare mondi. Mina è oltre.”

Prima di salutarci, gli chiedo se c’è una canzone di Mina che potrebbe considerare la sua preferita. “Ci devo pensare, è difficile, su due piedi,” mi risponde. Qualche giorno più tardi, mi scrive: “Ho scelto la canzone che mi rappresenta: si tratta di L’amore vero, canzone del prossimo album di Mina. Come vedi mi piacciono le cose non gentilmente legate alla memoria del passato ma alla memoria del futuro.”