A un mese dall’inizio della mia vita a Roma, ho incontrato Daniele, che ho iniziato subito a definire un’esperienza e non una persona: “Poi è successo Daniele”, “Tutti vorrebbero avere un Daniele”. Quando si trattava di romanticismo, questo era l’Adone della vita reale. Ogni tacca della nostra linea temporale era inverosimile come quella successiva: a febbraio ci siamo incontrati fuori da un bar di Roma; a marzo abbiamo avuto il nostro primo appuntamento a Verona; e ad aprile trascorrevamo i fine settimana nel suo appartamento di Rovereto, proprio sotto le Alpi italo-svizzere.
Tuttavia, il mio desiderio era accompagnato da una paura altrettanto forte. Se da un lato mi sono lasciata travolgere dai gesti incuranti di Daniele – mi ha fatto salire sulla sua moto e mi ha portato fino a Limone sul Garda – dall’altro ho cercato la protezione della calma e del freddo distacco. Era un’abilità che conoscevo bene e che portavo con orgoglio: mi aveva permesso di superare relativamente indenne innumerevoli appuntamenti e avventure infruttuose.
Poi, quattro mesi dopo, arrivò il momento di dire addio. A Roma e a Daniele, parole che ora significavano libertà, trasformazione e incomprensibile beatitudine.
La sera prima di tornare a Los Angeles, mi sono letta le parole scritte da Daniele mentre i miei amici bloccavano un tassista a Piazza Venezia. “Mi sono trovato benissimo con te / I had a great time with you”, scriveva. “Un giorno, speriamo di riuscire a ritrovarci / One day, we will hope to find each again”. Ho pianto e sono rimasta sorpresa dalla profondità del mio dolore.
Sul temuto volo di 14 ore per tornare a Los Angeles, mi immaginavo di tornare indietro. I miei ricordi stavano già appassendo e cambiando, e continuarono a farlo per molti mesi. A un certo punto, sembravano rasentare la finzione.
Poi, a giugno, Daniele mi ha mandato un messaggio: voleva venirmi a trovare in California.
Anche se non ero più sicura di ciò che provavo, ho accolto Daniele, questa volta, nel mio mondo. Per una settimana abbiamo viaggiato attraverso la California, toccando, muovendoci, esplorando. Gli ho insegnato a usare le bacchette davanti al sushi con mio padre giapponese e abbiamo mangiato noodles caldi con mia madre cinese. Abbiamo soggiornato in città balneari e fatto escursioni nello Yosemite e ci siamo addormentati completamente intrecciati, esausti e familiari.
Poi c’erano i momenti in cui uscivamo dal nostro mondo – lui chiamava un amico o io mandavo un messaggio al mio – e mi rendevo conto di quanto ci fossimo evoluti dai nostri giorni nel nord Italia. Erano questi i capitoli strani e deprimenti che andavano oltre il “vissero felici e contenti”.
Un’ora prima di lasciarlo all’aeroporto, ci siamo sdraiati sul mio letto. L’aria era calda e il rumore delle auto fuori era dolce, come una ninna nanna. Ho pianto e lui mi ha asciugato le lacrime; sapevo che questo era il nostro bellissimo, ultimo addio. Quando il timer del mio telefono suonò, dicendoci che era ora di andare, lui mi tenne il viso tra le mani, riportandomi a tutti i nostri momenti sulla piattaforma affollata del treno di Rovereto, alla sua camera da letto in Italia dove fuori galleggiava la neve fresca.
“Bella”.
Una parola che avevo sentito mille volte per descrivere cose come tramonti, giardini, una donna che camminava sui sampietrini romani con i tacchi a spillo. Sentirla dalle sue labbra stanche e affascinanti, tutto sommato, bella sembrava di gran lunga la parola più adatta a tutto ciò che avevamo vissuto.