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Cultura

L’isola dove l’Italia fascista imprigionò uomini gay

A San Domino, l'omosessualità fu sia punita che lasciata respirare.

Tra il 1938 e il 1941, diverse centinaia di uomini provenienti da tutta Italia — comunemente indicati nei documenti ufficiali come pederasti’— furono deportati alle Isole Tremiti…”

Sua Eccellenza il Questore Alfonso Molina era in anticipo quella mattina.

Chiunque lo avesse osservato da vicino, spogliato della deferenza a cui era abituato, avrebbe potuto cogliere una traccia di impazienza nella cadenza del suo passo altrimenti calmo e deciso. Le sue labbra sottili, raramente inclini a un sorriso, erano a volte disturbate da un breve tic nervoso, prontamente corretto da un brusco scatto del collo.

Entrò nel suo ufficio al secondo piano di Piazza S. Nicolella con ancora maggiore fretta. Appese cappello e cappotto sotto lo sguardo impassibile dei ritratti del Re e del Duce, chiamò un ufficiale e si mise subito al lavoro.

Pochi istanti dopo, un giovane esile con capelli neri corvini bussò alla porta.

— “Ufficiale Torrisi, Vostra Eccellenza!”
— “Torrisi, si sieda. Abbiamo un lavoro urgente da sbrigare, e mi dicono che è il più veloce con la macchina da scrivere.”

20 gennaio 1939 – anno XVII dell’Era fascista [*]

A Sua Eccellenza il Prefetto
Presidente della commissione provinciale
per il confino
Catania

Il flagello della pederastia in questa città sembra peggiorare e diffondersi, poiché giovani finora insospettabili si mostrano ora afflitti da questa forma di degenerazione sessuale, sia attiva che passiva, che non di rado porta a malattie veneree.

Non è con poco dolore che oggigiorno dobbiamo osservare la proliferazione di tali individui malati in caffè, sale da ballo, località balneari e montane, a seconda della stagione, dove sono accolti in gran numero. Giovani uomini di tutte le classi sociali cercano ora apertamente la loro compagnia, preferendo i loro affetti snervanti e degradanti.

Il Questore fece una pausa.

— “Capisce, Torrisi, la gravità della situazione? Questa città è invasa: dai marciapiedi di Via Etnea a Piazza Roma, dal quartiere del Duomo al Castello Ursino, ai giardini di Villa Bellini. Cinema e caffè altrimenti rispettabili sono infestati da questi invertiti… questi pederasti.”

Torrisi si limitò ad annuire.

— “Sono quasi due anni dall’omicidio Reitano, Torrisi. 15 ottobre 1937. Devo ricordarle i dettagli di quel crimine? Il ragioniere [impiegato] fu trovato morto sul pavimento del suo appartamento, con il cranio fratturato. Certo, nessuno piange un pederasta morto. Ma dopo due anni di indagini, il caso rimane irrisolto. E questo perché i pederasti sono ingannevoli, doppi e insidiosi. Eppure, li abbiamo studiati, pedinati, e sappiamo come e dove si muovono. E se non abbiamo ancora chiuso la sala da ballo in Piazza Sant’Antonio, è solo perché è una miniera di informazioni. Riceviamo decine di soffiate da cittadini onesti. Deteniamo i sospettati e promettiamo loro il rilascio immediato se forniranno i nomi di altri pederasti. E loro parlano, spaventati, piagnucolando. Patientia vincit omnia, Torrisi. Pazienza. La pazienza è la chiave. Procediamo.”

Questo contagio di degenerazione ha attirato l’attenzione della Questura locale, che è intervenuta per sopprimere, o quantomeno contenere, una così grave aberrazione sessuale, offensiva per la moralità e dannosa per la salute e il miglioramento della razza. Ahimè, le misure finora impiegate si sono rivelate insufficienti.

— “Guardi questi, Torrisi: i referti medici non mentono.”

Molina agitò in aria una pila di documenti. Alzando la voce, lesse ad alta voce, scegliendo a caso tra i documenti:

— “Abituato a coito innaturale in modo abituale. Fessure di tipo centripeto. Sfinteri rilassati. Affetto da sifilide contratta tramite coito anale.”

Le detenzioni, le visite mediche, la sorveglianza intensificata su luoghi pubblici e vie di comunicazione: questi non bastano più.

Molina tacque, sollevò il mento e chiuse gli occhi come per raccogliere i pensieri. Si avvicinò alla finestra per osservare la città. Sebbene fosse gennaio, il sole splendeva fiero sui tetti. Lo sguardo del commissario si posò prima sulla cupola della Collegiata dall’altra parte della strada, si soffermò su Santa Maria dell’Ogninella, e poi sul tetto del Teatro Bellini, prima di perdersi nel blu profondo del Mar Ionio intravisto tra gli edifici della città.

— “È mai stato fuori dalla Sicilia, Torrisi?”
— “No, Eccellenza…”
— “Beh, è comprensibile. È ancora molto giovane. Un giorno, visiterà le glorie della nostra Patria. Ce ne sono molte, dopotutto. La Divina Provvidenza ha donato alla nostra penisola un territorio tanto ricco quanto vario: le sue cime, i suoi laghi, le sue pianure parlano tutti il linguaggio dell’armonia e dell’ordine, così come l’anima del suo popolo.”

Il labbro superiore di Molina fremette, come scosso da una piccola corrente elettrica, prima che riprendesse.

— “…e le sue isole. Infatti, Torrisi, le isole: Lipari, Ventotene, Ponza, Ustica, le Isole Tremiti… Isole remote, gettate nel Mediterraneo, ideali per isolare dalle nostre città quei criminali insidiosi, affinché non possano più corrompere altri con le loro argomentazioni e la loro lussuria. Così realizziamo il progetto dell’uomo fascista: più forte, più sobrio, più combattivo, più virile. Ora, dove eravamo rimasti?”
— “‘… Le detenzioni non bastano più.’”
— “Ah, sì. Procediamo.”

Ritengo pertanto indispensabile, nell’interesse del pubblico decoro e della salute della razza, intervenire con misure più energiche, affinché il contagio sia colpito alla radice e cauterizzato. Si applichi il rimedio del Confino di Polizia contro i più ostinati, tra i quali sottopongo i seguenti nomi

— “E qui, Torrisi, inserisca i nomi di questa lista, uno per uno, con i relativi fascicoli.”

Molina porse al giovane una pagina, aggiungendo:
— “Tutti e 53.”

* * *

Le parole che Molina dettò quella mattina segnarono l’inizio di uno dei capitoli più oscuri della storia di Catania.

Sotto il regime fascista, l’omosessualità in Italia era sia stigmatizzata che effettivamente cancellata, sia socialmente che legalmente. Sebbene assente dal codice penale ufficiale, una legge discrezionale che prendeva di mira “coloro che rappresentavano una minaccia per la moralità o l’ordine pubblico” conferiva alle autorità ampi poteri per controllare e perseguitare gli individui LGBTQ+. Gli uomini sospettati di relazioni omosessuali venivano spesso imprigionati, istituzionalizzati o esiliati in isole remote, a volte anche per cinque anni.

Tra il 1938 e il 1941, diverse centinaia di uomini provenienti da tutta Italia – comunemente indicati nei documenti ufficiali come “pederasti” – furono deportati alle Isole Tremiti, un piccolo arcipelago roccioso nel nord Adriatico al largo della penisola del Gargano in Puglia.

“Venivano arrestati a casa, sul posto di lavoro, nei parchi, per strada o nelle sale da ballo, di solito di notte”, scrivono Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio nel loro libro La città e l’isola, Omosessuali al confino nell’Italia fascista (The City and the Island: Homosexuals in Confinement in Fascist Italy). “A volte era a causa di una denuncia, ma più spesso seguiva lunghe e metodiche indagini da parte delle forze di pubblica sicurezza. Non si trattava di dandy o aristocratici decadenti, ma per lo più di operai, sarti e braccianti agricoli. Alcuni impiegati o insegnanti, e molti analfabeti”.

Gli arresti erano spesso seguiti da umilianti esami medici, tra cui ispezioni rettali intese a fornire “prove” pseudo-scientifiche di omosessualità.

San Domino, la più grande delle Tremiti, fu designata per ospitare questi detenuti. All’epoca disabitata, era priva di infrastrutture di base: niente sistema fognario, niente acqua corrente, nessuna opportunità di lavoro e una cronica carenza di cibo. Lunga poco meno di 3 chilometri e larga quasi 2, l’isola si ergeva ripida dal mare, con le sue scogliere scoscese che rendevano la fuga quasi impossibile. La costa frastagliata era scolpita con calette rocciose, grotte e strette insenature.

Il suddetto questore Alfonso Molina, il commissario di polizia di Catania, fu responsabile di una delle più repressive campagne anti-omosessuali. Già noto per precedenti repressioni a Salerno, Molina approfittò dell’irrisolto omicidio dell’impiegato gay nel 1937, come pretesto per esporre la vita privata di dozzine di uomini omosessuali, definiti, con disprezzo, come “ arrusi” nel dialetto locale.

Dei 53 individui che raccomandò per il confino di polizia, 45 uomini tra i 18 e i 54 anni furono arrestati con l’accusa di “pederastia passiva” – considerata un crimine contro il pubblico decoro e l’integrità della razza – e furono infine deportati a San Domino.

“Quei poveri diavoli – tra loro c’erano bravi artigiani, persino insegnanti – vivevano in condizioni terribili”, ricordò in seguito Mario Magri, un prigioniero politico internato nella vicina isola di San Nicola. “Erano pagati quattro lire al giorno e stipati in due luride baracche di legno, circondate da filo spinato che li teneva confinati in pochi metri quadrati”.

Eppure, nonostante l’isolamento e le difficoltà, a San Domino accadde qualcosa di straordinario: emerse un senso di comunità. Alcuni uomini si innamorarono persino.

“Tutti cercavano di tenersi occupati: chi sapeva fare le scarpe diventava calzolaio, chi sapeva cucire faceva il sarto”, ricordò l’ex detenuto Giuseppe B., di Salerno, in una rara intervista del 1987 condotta dallo storico Giovanni Dall’Orto. “Io avevo il lavoro migliore di tutti: ero la ‘sarta’ dei carabinieri, e ogni mattina si presentavano mezzi vestiti… Ce n’era uno, si chiamava V.—così bello! Lo ricordo ancora, anche dopo 40 anni. Cercavamo di vivere al meglio che potevamo. Ridevamo, mettevamo in scena spettacoli teatrali, celebravamo le cose… Arrivava un telegramma che diceva che una nuova femmenella era in arrivo, e ognuno di noi contribuiva con una lira per preparare una festa.” (Si noti come Giuseppe usa femmenella, un termine dialettale campano per gli uomini gay, piuttosto che il siciliano arruso.)

Inconsapevolmente, e in modo piuttosto ironico, il regime fascista aveva creato uno dei pochi posti in Italia dove essere apertamente gay era, in un certo senso, accettato. Per la prima volta nella loro vita, questi uomini si sono trovati liberi dal controllo morale che definiva l’Italia devotamente cattolica degli anni ’30.

“C’erano due cugini di Paternò, uno scultore, l’altro pittore, che organizzavano tutto, dicendoci di raccogliere fiori, appendere decorazioni e così via”, ha continuato Giuseppe. “Onestamente… lì vivevamo meglio che fuori. Allora, se eri femmenella non potevi nemmeno uscire di casa: se attiravi l’attenzione su di te, la polizia ti arrestava. Ma in confinamento, potevamo celebrare l’ onomastico [giorno del nome celebrato nel giorno della festa del proprio santo patrono], dare il benvenuto a un nuovo arrivato… Aiutava a far passare il tempo. Facevamo anche teatro e, naturalmente, potevamo vestirci da donne senza che nessuno dicesse niente. Alcune femmenelle piangevano quando siamo stati trasferiti da Tremiti!”

Il 28 maggio 1940, per ordine del Capo della Polizia e con l’approvazione di Mussolini, i 56 uomini rimasti furono rilasciati. Le loro condanne furono convertite in due anni di ammonizione—una misura repressiva della polizia che imponeva il coprifuoco, il divieto di viaggio e i check-in obbligatori a coloro che erano considerati “socialmente pericolosi”, senza la necessità di una condanna penale. Il loro rilascio, piuttosto che un atto di misericordia, era una questione di logistica: il regime aveva bisogno di spazio per detenere gli antifascisti italiani di ritorno dalla guerra civile spagnola, ora visti come la minaccia maggiore. Due settimane dopo, l’Italia entrò nella seconda guerra mondiale a fianco della Germania nazista.

Il destino degli uomini mandati a San Domino rimane in gran parte sconosciuto. Gran parte della loro storia è stata sepolta e, a parte i fascicoli della polizia che hanno portato al loro arresto, esiste pochissima documentazione. Sono state raccolte poche testimonianze e si ritiene che nessuno di questi uomini sia ancora vivo oggi. Quello che sappiamo è che alcuni sono finiti di nuovo in prigione. Alcuni si sono sposati per salvare le apparenze. Alcuni, una volta tornati a Catania, hanno lasciato del tutto la città. Dopo la guerra, un periodo ancora poco ospitale per le persone queer, molti hanno scelto di dimenticare — o di rimanere in silenzio — anche decenni dopo la loro reclusione.

Questore Alfonso Molina fu rimosso dal suo incarico il 5 agosto 1943. Alla fine della guerra, temendo di essere mandato in un campo di internamento alleato, lo stesso uomo che aveva passato anni a dare la caccia a coloro che erano considerati “effeminati” sarebbe scoppiato in lacrime.

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*Il testo dettato dal Questore Molina nel breve racconto è un estratto del vero rapporto inviato alla Commissione Provinciale per il Confino, allegato ai fascicoli di tutti gli uomini condannati di Catania.

The rules that internees were forced to follow in the Tremiti internment colony @Luana Rigolli (The Central State Archives is the owner of the original documents reproduced here. Further reproduction and duplication by any means is prohibited).