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Le molte vite di Irene Brin

Una scrittrice acuta, una mercante d’arte ipercolta, una traduttrice sensibile, una fashionista militante: sempre avanti rispetto ai suoi tempi, Irene Brin ha ricoperto molti ruoli, anche se non è evidente che lei stessa abbia mai saputo chi fosse veramente.

Un vassoio per la colazione con frittelle, salsa e una tazza su un letto disordinato in una stanza d'albergo a luce soffusa; lampada sul comodino, loghi a destra. Hotel d'Inghilterra Roma, Starhotels Collezione - Vassoio per la colazione con pancake, sciroppo e frutti di bosco su un letto stropicciato in una camera elegante.

Come ha saggiamente detto, faceva parte di “una generazione ingenua che si illudeva di vivere a un ritmo eccezionale”. Ha vissuto tutto: la Grande Guerra, l’ascesa del Fascismo, un’altra Guerra Mondiale, la caduta del Fascismo, il miracolo economico italiano. Dal corsetto alla minigonna.

Tra i suoi tanti meriti, Brin è passata alla storia come la massima interprete di un modo originale di scrivere di quello che oggi chiamiamo “lifestyle” e che all’epoca era noto come “costume” (inteso come cosa indossi, come lo indossi e perché, tutto insieme).

La sua scrittura era breve, caustica e piena di citazioni intelligenti. Negli anni ’40, l’ Almanacco della donna, una delle prime pubblicazioni italiane dedicate alle donne, la descriveva come “il flagello delle abitudini, la più insolente, la più brillante tra i giornalisti italiani”.

“È stata una”piccola maestra del difficile mestiere letterario che riesce a fondere il massimo senso dello stile e senso dell’umorismo, con il minimo dei mezzi e sforzo evidente commentava il suo amico Alberto Arbasino, che condivideva con Brin lo stesso tono pungente e la soddisfazione nel recitare la parte dello scrittore snob.

Non era particolarmente bella, ma aveva stile da vendere; non era un’aristocratica, ma aveva imparato a comportarsi come tale e, cosa più importante, era incredibilmente colta.

Le sue scarpe erano sempre aperte davanti, anche in inverno, per mostrare le unghie perfettamente lucidate. Non indossava mai calzini.

Irrimediabilmente miope, si rifiutava strenuamente di indossare gli occhiali (non abbastanza chic!), dando origine a innumerevoli aneddoti divertenti: dalle identità dei suoi camerieri, spesso scambiate, alle ciglia finte accidentalmente cadute nel piatto durante una festa e coerentemente ingerite con la cena.

Irene era nata Maria Vittoria Rossi nel 1911 (spesso mentiva sulla sua età), in una famiglia ben istruita con idee progressiste. Ha iniziato a scrivere per un giornale quando aveva solo 20 anni, e non avrebbe mai smesso fino alla sua morte nel 1969, passando da uno pseudonimo all’altro e da una personalità all’altra con la stessa facilità con cui cambiava taglio di capelli.

A seconda dei suoi lettori e, probabilmente, dell’umore del giorno, era: “Oriane” (dal nome dell’elegante Duchessa di Guermantes della Recherche di Proust); “Mariù” (il suo soprannome d’infanzia, ma anche un omaggio alla canzone di Vittorio de Sica: Parlami d’amore, Mariù!
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Tutta la mia vita sei tu!, recentemente riportata in vita da Dolce&Gabbana per promuovere gli slip bianchi di David Gandy); “Cecile Wheldon Aldighieri”; “Morella”; “Marina”; “Adelina” e “Geraldina Tron” per articoli su riviste femminili; “Ortensia” per pezzi sui mondani; e, tra gli anni ’50 e ’60, la mia preferita: “Contessa Clara Ràdianny von Skéwitch”, poi semplicemente “Contessa Clara”, una saggia contessa austriaca che dava consigli di stile e praticamente su tutto al pubblico italiano imborghesito.

“Irene Brin”, il suo nom de plume più amato, era un’invenzione del suo pubblicista, Leo Longanesi, che la voleva come collaboratrice regolare per Omnibus, la più grande rivista illustrata italiana degli anni ’30. “Il mio nome non è Irene, il mio cognome non è Brin, anche se appaio così nei contratti, negli elenchi telefonici, nelle conversazioni familiari. Sono un’invenzione di Leo Longanesi, come molte altre persone che hanno avuto la fortuna di passare da lui” dichiarò riguardo al suo pseudonimo.

Nel 1935, durante un ballo di Carnevale per la cavalleria all’Hotel Excelsior di Roma, Irene, in un bellissimo abito bianco lamé, incontra l’ufficiale Gaspero del Corso.

“Abbiamo ballato insieme tutta la notte, parlando di Proust. Poi lei è tornata a Genova, dove viveva, e io a Merano, dove era la mia guarnigione. Ci siamo scritti, e ci siamo incontrati solo tre o quattro volte prima di sposarci. Era meravigliosa”.

«È stata un’unione perfetta, di felicità e condivisione emotiva e culturale, d’amore, come succede quasi sempre quando una donna intelligente sposa un omosessuale» nota astutamente la giornalista Natalia Aspesi.

Scoppia la guerra. Gaspero viene mandato al fronte nei Balcani, Irene lo segue.

Nel 1943 tornano a Roma, stabilendosi a Palazzo Torlonia, a due isolati da Piazza di Spagna. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, la capitale è occupata dalle truppe naziste. Gaspero è considerato un disertore. Irene lo nasconde, insieme ad altri quaranta soldati che scappano dalle retate tedesche.

Per sbarcare il lunario, è costretta a vendere i suoi oggetti personali, compresi i regali di nozze: una borsa di coccodrillo, stampe e disegni di Picasso, Matisse, Morandi.

Dopo la liberazione dell’Italia, la gente lentamente ricomincia a sentirsi viva, «anche se le spiagge erano minate, le pinete stavano ancora bruciando e i bunker bloccavano il mare».

L’arte e la moda tornano a far parte della vita quotidiana.

Nel 1946 Irene e Gaspero aprono la Galleria l’Obelisco in Via Sistina, la prima galleria d’arte ad aprire nel dopoguerra, che diventa rapidamente l’epicentro culturale della capitale.

Camminando oggi per Via Sistina, faccio fatica a credere che quello che attualmente è un modesto negozio di alimentari al numero 146 – uno di quelli con un’insegna schizofrenica «APERTO» che lampeggia ad ogni frazione di secondo – fosse una volta una delle migliori gallerie di Roma, frequentata dal gotha della cultura della città: Luchino Visconti ed Ennio Flaiano, Pier Paolo Pasolini appena trasferitosi dal Friuli, Sandro Penna, Eugenio Scalfari.

Sfogliare i cataloghi della galleria è come ottenere un chi è chi della storia dell’arte del XX secolo. Non manca nessuno: Afro, Bacon, Balthus, Burri, Calder, Dal í, de Chirico, Fontana, Magritte, Matta, Morandi, Moore, Kandinsky, Picasso, Rauschenberg, Tanguy, Toulouse-Lautrec…

L’Obelisco dà a Brin un’aria internazionale da respirare.

Nel frattempo, Roma sta passando dall’essere una città in rovina a un’idea – o meglio, un ideale. La vita è dolce. «Ho capito che Roma era diventata il centro del mondo e che valeva la pena partecipare», spiegò in seguito.

Negli anni ’50 Brin sostiene il marchese Giovanni Battista Giorgini nella prima sfilata di moda italiana a Firenze, che in seguito divenne un evento celebre a Palazzo Pitti. La moda italiana si sta aprendo al mondo (e agli Stati Uniti, principalmente). Brin, ovviamente, c’è.

Durante un viaggio a New York nel 1950, passeggia per Park Avenue indossando un enorme cappello di Jacques Fath e un favoloso Fabiani rosso, quando Diana Vreeland la ferma per chiedere chi sia lo stilista del suo tailleur. La mitica direttrice di moda probabilmente è interessata tanto ai vestiti di Brin quanto a ciò che coprono. Le due iniziano a chiacchierare di Italia e moda, e Brin viene poi nominata corrispondente per Harper’s Baazar.

Tra una sfilata e la sua rubrica di consigli, Brin, che ora è la «Contessa Clara», scrive il suo Galateo, un libro sulle buone maniere che illustra come comportarsi in società, da come maneggiare gli asparagi a come gestire i matrimoni. È un successo istantaneo.

Con la sua frivolezza attentamente studiata, Brin ha descritto una nazione meglio di decine di giornalisti impegnati.

Verso la fine della sua vita, ripensando al suo passato, scrisse:

“Il dopoguerra finì un po’ malinconicamente, come finiscono i periodi di euforia e ricchezza.

Dal 1919 al 1929 c’erano stati i ruggenti anni venti, il Charleston e Hemingway e Miss Chanel, poi è arrivata Wall Street, con i crolli finanziari. Dal 1950 al 1963 c’è stato il boom, Elvis Presley, e Miss Chanel, poi è arrivata la congiuntura”.

La storia va in cerchio. Dovrebbe trovarti nel tuo comportamento migliore.

Irene Brin

Elegante ristorante dalle pareti blu con sedie arancioni, tovaglie bianche, opere d'arte, specchio dorato e vista sul bar. Arredamento caldo e classico. Elegante sala da pranzo con pareti blu, specchio dorato e poster d'epoca. Sedie arancioni su tavoli rivestiti di bianco. Presenti i loghi Helvetia e Bristol.