Città dalle potenzialità e dalle catastrofi eccessive, Napoli porta sulla pelle varie cicatrici: eruzioni vulcaniche, colera, emergenza rifiuti, terremoti, lahar, ma anche rivoluzioni, battaglie, riqualificazioni urbane e ricchezze culturali impareggiabili. In una scenografia di questo tipo, l’abitante autoctono come può reagire? In un contesto sociale in cui la disoccupazione è quasi al 28% (dati del 2005) il napoletano cosa può fare per vivere?
Andandosene o adattandosi. O meglio, arrangiandosi.
È un’abilità che i napoletani hanno imparato a padroneggiare in parte grazie a eventi storici e culturali, ma è anche un sentimento comune che può essere rintracciato nel DNA stesso della città, un comportamento che è quasi diventato un vero e proprio stile di vita per tirare a campare e che ha permesso la fioritura di mestieri fantastici, alle volte davvero sorprendenti, descritti persino da scrittori famosi come Benedetto Croce, Matilde Serao, Salvatore Di Giacomo. Benedetto Croce, ad esempio, disse che Napoli era un “paradiso abitato da diavoli” e Matilde Serao descrisse il suo popolo come “riccosangue napoletano che si arroventa nell’odio, brucia nell’amore e si consuma nel sogno”.
C’è un film del 1954 di Luigi Zampa, interpretato da uno strepitoso Alberto Sordi, intitolato per l’appunto “L’arte di arrangiarsi”, una comica denuncia del tipico personaggio voltagabbana, opportunista e imbroglione: la filosofia personale del protagonista si riassume in un imperativo morale molto alto, ovvero la sopravvivenza. Questo stile di vita si adatta molto bene al popolo napoletano, sia in termini positivi che negativi.
Gli scugnizzi dello scorso secolo (gruppetti di ragazzini molto giovani che infestavano le strade giocando, rubacchiando e spesso patendo la fame) erano eccellenti nell’arte di arrangiarsi: prendiamo ad esempio quelli che si dedicavano a lustrare le scarpe dei signoroni che passeggiavano su Via Toledo. Presero il nome di sciuscià, storpiando (come spesso capita nel dialetto partenopeo) le parole inglesi “shoe shine”. Oppure prendevano in carico le consegne di frutta e verdura, di latte e pane, da portare in casa delle persone anziane (lavoro che ancora oggi esiste e persiste, specie nei dintorni delle macellerie e degli alimentari di quartiere). Mettevano tutto in bici e facevano le scale di fretta e furia. Una sorta di consegna porta a porta tramite la quale si guadagnavano una piccola mancia.
La controparte era finire per strada e basta, come testimoniano meglio di me film come “Napoli violenta” di Umberto Lenzi (1976) e “La paranza dei bambini” di Claudio Giovannesi (2019).
Non è anche quello un modo, illecito sì, di sapersi arrangiare?
Una contraddizione e un contrasto esistenziale che i napoletani conoscono molto bene e le cui peculiarità sono arrivate anche all’estero, non soltanto in tempi recenti, ma fin dal Settecento. Goethe, che chiaramente è diventato “uno di noi” innamorandosi perdutamente di Napoli, rispose così a chi additava la città tacciandola di essere patria degli “sfaticati”: “Ho potuto osservare molta gente mal vestita, ma nemmeno uno che sia disoccupato…Quanto più mi guardavo attorno, e quanto più attentamente osservavo, tanto meno potevo trovare dei veri vagabondi, sia delle classi infime che delle medie, sia di mattina che durante la maggior parte della giornata, giovani o vecchi, uomini e donne”.
Un luogo quindi operoso, sia nel lecito che nell’illecito, è un dato di fatto.
Tornando sul sentiero seminato, sapersi adattare non è mai stato un modus vivendi solo dei bambini. Vogliamo parlare anche delle donne?
Pratica comune in tutta Italia, specie nei periodi poveri del secondo dopoguerra, ma non solo, era quella delle mammazezzelle, ovvero quelle donne più o meno giovani che si prendevano carico di neonati non propri per allattarli. I bambini diventavano così fratelli e sorelle di latte. Le napoletane però portarono questo mestiere a un livello pro: quando un neonato veniva al mondo, queste donne sfruttavano l’ignoranza delle persone povere per far credere che i piccoli avessero qualcosa da aggiustare, magari un bozzo, una ruga, la testolina più grande. Li prendevano con sé, dietro compenso, ma non facevano proprio nulla, semplicemente attendevano che il neonato crescesse per un paio di giorni, magari allattandolo solo, e poi lo riportavano indietro bello pulito e roseo. Si chiamavano per questo “aggiustabambini”.

Photography by Gina Spinelli
E che dire delle famosissime capère? Un secolo fa era un mestiere tutto femminile veramente ben visto, anche dalle famiglie nobili e ricche: si trattava di un antenato dell’impiego di parrucchiera a domicilio, che non si limitava però solo ad acconciare i capelli di poverette e nobildonne, ma portava nelle case delle clienti il gossip. Sapevano tutto di tutti e non avevano alcuna intenzione di nasconderlo e più erano informate, più erano richieste. Lo scrittore Raffaele Mastriani le descriveva così: “Veste sempre con molta nettezza ed anche con alquanta ricercatezza pel suo stato; ma in particolar modo il suo capo debbe essere specie di mostra, di campione e di modello”.
Campionesse di acconciature e pettegolezzi.
Se invece qualcuno aveva bisogno di un po’ di pathos in più a un funerale, bastava pagare una “chiagnazzara”: solitamente attrice professionista, la donna piangeva con un trasporto incredibile il morto, dando così ai presenti e ai parenti l’impressione di star assistendo alla sepoltura di un santo.
E potrei stare qui ore e ore e ore nel descrivervi gli street food napoletani nati grazie all’arte di arrangiarsi delle donne: dalle zendraglie (frattaglie) alla pizza fritta (il film “L’oro di Napoli” con Sofia Loren è illuminante in questo caso, spesso a friggere alimenti nell’olio bollente c’era la moglie del pizzaiolo) dalla pizza a credito, ovvero pagata a rate, alla pizza “oggi a otto”, ovvero “me la mangio oggi e la pago tra otto giorni”, dalle zeppole e panzarotti agli antichi cuoppi di paranza (pesci azzurri come triglie e bianchetti fritti e messi in un cartoccio a forma di cono).
E se le donne sono state le regine dell’arte di arrangiarsi, gli uomini non si sono certamente tirati indietro: riprendo il già citato “L’oro di Napoli” per indicare una figura sopravvissuta ancora oggi per le strade della città, ossia il “pazzariello”. Nella pellicola, questo era interpretato niente meno che da Totò, ed era sinonimo di burlone, simpaticone in senso stretto, mentre in toni più elastici incarnava la figura dell’attore teatrale di strada, vestito in colori sgargianti e spesso accompagnato da un’orchestrina per intrattenere i passanti. Praticamente un antico street performer.
Come non menzionare un altro esperto di strade e viuzze? Il cosiddetto “lutammaro” (la parola riconduce alla radice “lota”, ovvero “fango”, “sporco”) un indispensabile mestiere prettamente maschile che si traduceva nella raccolta di escrementi, fango, pietre e ogni tipo di sporcizia dalle strade, per poi rivederne la parte utile come concime.
“L’acquaiolo” invece, successivamente proprietario di una o più “banca ‘e ll’acqua” (letteralmente “la banca dell’acqua”, in senso ampio: un venditore di bibite fresche) coglieva la grande opportunità di recuperare acqua potabile dalle fonti naturali per poi rivenderla in forma di semplice bibita o di ghiaccio, un lusso per quei tempi, nel 1700. Si sentiva infatti spesso appellarli con una frase ricorrente: “Acquaiò, acquaiò, com’è l’acqua? L’acqua è fresca?”.
Altri mestieri che provavano quanto il napoletano fosse un guru nell’arte di arrangiarsi: il “sapunaro”, un ragazzo o un uomo che girava di casa in casa e si prendeva carico di mobili, vestiti, oggetti, suppellettili, qualsiasi cosa di cui la gente avesse bisogno di disfarsi e che, invece di pagare con moneta sonante, scambiava con pezzi di sapone.
E se invece voleva darsi all’arte? Allora il napoletano poteva fare, oltre al “pazzariello”, o “l’arriffatore” o “la posteggia”. Erano due declinazioni diverse della stessa intuizione, ovvero l’intrattenere le persone a tavola: il primo organizzava la “riffa”, un gioco simile al lotto, però in forma privata. Ovviamente la chiamata dei numeri veniva condita da canti, urla, botte e ogni tipo di ammuina (confusione). Il secondo invece cantava e suonava tra i tavoli di un bar o un ristorante, preferendo le canzoni melodiche classiche del repertorio napoletano, come “Chella là”, “Anema e core” o “Reginella”.
E se dobbiamo parlare di cibo, che ne dite nel “cassaduoglio”? Era il negoziante proprietario di bottega che vendeva soprattutto formaggio (‘o caso) e olio (ll’uoglio) e che di solito, per arrotondare, preparava la colazione (che a Napoli e in provincia non si riferisce al primo pasto della giornata, ma alla merenda di metà mattina dei lavoratori come muratori e operai) agli uomini del quartiere.
Tutto questo è sempre stato sinonimo di astuzia, ingegno, duttilità, qualità che vanno molto oltre la facciata del napoletano furbo che vuole venderti solo accendini, calzini e oggetti di contrabbando. Certamente, questa inclinazione ad adattarsi ha fatto crescere anche il concetto sbagliato e non del tutto fondato che il napoletano sia un “imbroglione” a prescindere, che sia una persona di cui non fidarsi. Uno stereotipo che si è consolidato nel tempo e che il significato stesso di “arrangiarsi” dovrebbe depenalizzare, perché se è vero che adattarsi è più facile in mestieri se si possono attuare in strada, è vero anche che il genio partenopeo non ha mai neanche disdegnato l’arte, l’architettura, le scienze e la cultura accademica.
Si potrebbe dire che i napoletani si piegano, ma non si spezzano. Anzi, nel piegarsi, recuperano idee e lampi di genio che, restando immobili e abitudinari, non avrebbero potuto trovare.
Gli esperti mi perdoneranno se ho mancato – sicuramente – qualche altro mestiere di un tempo, ma lo scopo dell’articolo non era quello di stilare un elenco, bensì di scoperchiare un vaso di Pandora tutto partenopeo. L’arte di arrangiarsi è proprio questo: una resistenza resinosa che si attacca alla vita, difficile da scardinare, e che incarna forse meglio di ogni altra caratteristica lo spirito della città e dei suoi brulicanti ospiti.
“I Quartieri” a Napoli sono tutti i vicoli che da Toledo si dirigono sgroppando verso la città alta. Vi formicolano i gatti e la gente; incalcolabile è il loro contenuto di festini nuziali, di malattie ereditarie, di ladri, di strozzini, di avvocati, di monache, di onesti artigiani, di case equivoche, di coltellate, di botteghini del lotto: Dio creò insomma i Quartieri per sentirvisi lodato e offeso il maggior numero di volte nel minore spazio possibile”.
–Giuseppe Marotta dal libro “L’oro di Napoli”