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L’Ammuina: Ovvero Come Fare Confusione con Metodo

“Senza cadere nei soliti luoghi comuni che vogliono i napoletani sempre allegri e sorridenti, non c’è dubbio che l’ammuina sia un sentimento tutto napoletano.”

Nella lingua napoletana esistono tante parole che sono praticamente intraducibili e che perdono forza e significato nella loro versione italiana. Penso a cazzimma (essere furbi e opportunisti) o a intalliare (procrastinare) oppure ancora ad appucundria (nostalgia, simile al termine portoghese “saudade”) a vajassa (donna sboccata) e a pezzotto (falso, fregatura). Fa parte della ricchezza di un dialetto, anche se ci tengo a specificare che il napoletano non è solo un dialetto, ma una lingua vera e propria, con le sue regole e la sua sintassi.

Esiste un altro termine difficilmente parafrasabile che è ammuina e che, parlando in termini generali, racchiude un po’ dello spirito di Napoli e del suo popolo, un sentimento contagioso che acquisisce valore solo se condiviso. Ma cos’è l’ammuina? Se vogliamo metterla sul piano sensoriale la descriverei come una “gioia confusa” o una “confusione gioiosa”, come un rumore di fondo o il più chiassoso degli urli, tutto dipende da dove lo si cerca, se in un piccolo quartiere, in una piazza, in un vicolo, in una casa, dove si potrebbe sentire qualcosa come “uè, che è st’ammuina?” per chiedere spiegazione di una certa confusione, oppure “è tutta n’ammuina” per meravigliarsi di una situazione particolarmente vivace.

Probabilmente l’ammuina è una delle prime cose che colpisce chi visita la città, o almeno per me così è stato: nata in un paesino pugliese piccolo e silenzioso, una volta messo piede a Napoli tornare indietro è stato impossibile, e non perché, come si dice, chi viene a Napoli piange quando arriva e quando va via, ma perché si tratta di un sentimento, di un’attitudine vera e propria, è come il ridere, il divertirsi, l’amare in un certo modo, in modo spensierato, che fa bene all’umore. L’ammuina c’è persino di notte, e quand’ero una studentessa con un appartamento in centro sentivo i motorini e i canticchiamenti della gente di continuo – carovane di ragazzini e ragazzine, carretti che suonavano canzoncine napoletane itineranti, tenori di strada che davano sfoggio delle proprie opinabili voci – tanto che quel suono diventò la mia ninna nanna e quando tornavo a casa mia non riuscivo a dormire per il troppo silenzio.

L’origine etimologica va ricercata nello spagnolo “amohinar”, tradotto con “fare confusione”. A sua volta questo deriva dal verbo occitano “amoinà”, figlio di altri termini latini e persino greci. La stessa radice la possiamo trovare anche in “ammutinare” e forse non è troppo una coincidenza, considerato che fare confusione e ribellarsi contro i propri superiori hanno un significato similare.

La relazione tra queste parole ha a che fare con la storia un falso storico molto interessante: pare che nel 1841 fu fatto circolare un decreto borbonico (che oggi sappiamo essere finto) in cui un regolamento rivolto “ai legni e ai bastimenti della Real Marina” (e quindi a tutti i marinai della marina italiana borbonica) ordinava di “fare ammuina”, intenso come “agitarsi per far credere di star lavorando alacremente”. Si trattò di una bravata, di uno scherzo, volto a screditare il nome dei Borbone.

Se vogliamo concentrarci sul concetto in termini positivi, fare ammuina non pare tanto una parola, quanto un temperamento nel senso più ampio, un modo di essere e di vivere, di affrontare le difficoltà. Senza cadere nei soliti cliché che vogliono i napoletani sempre arzilli e sorridenti, è indubbio che l’ammuina sia un sentimento tutto partenopeo.

Chiunque sia stato almeno una volta nella vita a Napoli l’ha potuto percepire: basta inoltrarsi nei suoi quartieri o osservare la gente per strada gesticolare, canticchiare, persino urlare senza ragione, per immergersi in quella confusione ridanciana, nello scompiglio, nel rumore, nella musica, nel fare moine (e anche qui, la radice della parola è la stessa). 

L’ammuina è quindi un po’ anche teatro, è il venditore che ti sorride perché vuole spillarti soldi, è il Pulcinella un po’ macchiettistico che balla sul lungomare di Mergellina e tutto ciò che è a servizio del turista. Ma se pensiamo che si fermi a questo sbagliamo: l’ammuina la si trova anche nelle case, intorno alla tavola, dove si raccolgono famiglie intere e ci si parla uno sopra l’altro, si urla, si canta, si bestemmia pure. L’ammuina rappresenta il mescolio delle voci che stordiscono, le carovane di motorini per strada, il bisticcio a un angolo, la signora che urla dal suo balcone o che ti butta l’acqua in testa. È quel trambusto controllato che fa parte del tessuto della città e senza il quale Napoli non sarebbe Napoli.

A Napoli ci si ammuina persino e il termine assume un significato ancora diverso: ci si galvanizza, ci si entusiasma per qualcosa, per un piatto, per un viaggio, per la visita a un museo, per la serata con gli amici, per la vittoria della squadra (vogliamo parlare dell’ammuina che sta nascendo in queste settimane a questo proposito?).

Ammuinarsi è un affare tutto partenopeo, ma estremamente contagioso. Si potrebbe dire che l’ammuina sia persino un movimento fisico, una corsa, un gesto ampio, una risata sguaiata, uno schiaffo dietro la nuca; oppure il lavoro di uno scalpellino, di uno scultore, il canto degli studenti del Conservatorio di San Pietro a Majella, il taxi che ti sorpassa perché stai intalliando (come dicevamo prima) sulla sua corsia, il venditore di calzini che ti segue per chilometri instancabile fin quando non gli hai dato i tuoi spiccioli.

È un concetto di luci e ombre, come ovunque a Napoli, nel senso che acquisisce una connotazione positiva se circoscritta a sentimenti allegri come gli amici, il divertimento e la condivisione, e acquisisce una connotazione negativa se la confusione diventa chiasso, disordine, ribellione, disturbo Si può adottarlo così com’è o farlo proprio, per donargli un altro significato, altre sfaccettature.

L’ammuina è un filo intrecciato nel tessuto della città, che si unisce ad altri fili, quelli dell’accoglienza, della buona cucina, dell’arroganza e della permalosità partenopee, delle ombre dei quartieri meno conosciuti (che non si dica che Napoli è solo mare, sole, mandolino e pizza), e che riconduce la propria natura proprio alle sue origine etimologiche, alla questione di fare gruppo, di stringersi come popolo intero per ribellarsi alle difficoltà, per battersi per una nuova identità al di fuori degli stereotipi e delle narrazioni urbane e sociali più superficiali.

Forse è questo ciò di cui ha bisogno una città sfaccettata come Napoli, una ricodificazione dei suoi assunti fondamentali, uno scrollarsi di dosso ciò che tutti tentano di definire come “la città do’ mare e do’ sole”, per scoprire davvero, per vedere e non solo guardare, quanto sia ricca e profonda l’anima ribelle, orgogliosa e accogliente dei suoi abitanti.

Photo by Ebru Çiçek