Gli ultimi anni hanno visto gli Stati Uniti ridefinire profondamente le sculture pubbliche in seguito alle proteste di Black Lives Matter, ispirando manifestazioni e conversazioni simili in tutto il mondo. Eppure, non c’è stato un simile ripensamento qui in Italia – cosa particolarmente sorprendente in un Paese in cui tali statue sono sovrabbondanti.
Le vecchie nazioni, diceva Nietzsche, hanno la tendenza a monumentalizzarsi, e il giornalista italiano Ennio Flaiano ha aggiunto che nel nostro Paese questo processo non avrà mai fine.
Gli italiani non sono mai stati timidi nel mettere persone (e animali) su piedistalli: Il David di Michelangelo si trova accanto all’ingresso del municipio di Firenze, in Piazza della Signoria, dal 1504 (fu sostituito da una copia solo nel 1910); una scultura in bronzo del leone di San Marco sorveglia i veneziani che passano davanti alla cattedrale della città; sculture del Bernini adornano le fontane pubbliche di Roma.
Per accrescere il nostro senso di orgoglio nazionale, i monumenti dedicati ai nostri Padri della Patria abbelliscono ogni piazza, parco, lungomare, viale, incrocio e persino strada di campagna. Vittorio Emanuele II, Giuseppe Mazzini, Camillo Cavour e Giuseppe Garibaldi costituiscono “la squadra A” del Risorgimento, il periodo agitato che culminò nell’unificazione politica del Paese nel 1861. Insieme, coprono ogni declinazione del potere maschile ottocentesco: rispettivamente, il re, l’intellettuale, il politico e il generale.
Il destino ha dotato i quattro uomini di tratti riconoscibili che, trasformati in pietra, appaiono ancora più belli. Su alti piedistalli brulicanti di bassorilievi si ergono lo sbruffone Vittorio Emanuele e i suoi baffi a manubrio da hipster; la figura incerta e meditativa di Mazzini (che sembra sempre un po’ depresso); Cavour, un po’ paffuto, con i suoi inconfondibili occhiali, che ci sorride.
E poi c’è Garibaldi. Probabilmente per la sua vita avventurosa e per il suo spiccato senso della moda (c’è persino uno stile di barba che porta il suo nome), il cosiddetto “Eroe dei due mondi”, il soggetto più popolare per una statua pubblica in Italia, secondo solo alla Vergine Maria.
L’ammirazione dei suoi compatrioti ha prodotto una serie di targhe commemorative sulle facciate degli edifici in cui il generale “posò le stanche membra”, e un’infinità di Garibaldini in bronzo sparsi per il Paese, da Rovigo a Catania. Garibaldi in piedi, Garibaldi a cavallo, Garibaldi a piedi, al trotto, al galoppo, Garibaldi che pensa, Garibaldi che grida, Garibaldi con il cappello, senza cappello, con la pistola in mano, con la sciabola…Non importa in quale versione lo abbiate, il “genio sterminatore di ogni tirannia” è lì a vegliare su di noi, ricordando ai suoi umili figli le virtù della patria.

Giuseppe Garibaldi, Rome

Fontana del Tritone by Lorenzo Bernini
Purtroppo, sembra che i nostri padri della nazione fossero troppo occupati per preoccuparsi dell’equilibrio della rappresentazione di genere.
Nel 2021, l’associazione “Mi Riconosci” ha pubblicato un censimento delle sculture e dei monumenti pubblici italiani dedicati alle donne, concludendo che sono pressoché inesistenti. Mettendo insieme Roma, Napoli, Milano, Torino, Firenze, Bologna, Bari, Palermo, Cagliari e Venezia, si è arrivati a un numero totale di venti, di cui solo otto sono vere e proprie statue. Quelle esistenti tendono a essere stereotipate e sessualizzate.
La riqualificazione urbana delle città italiane negli ultimi venti anni avrebbe potuto contribuire a superare questo squilibrio. Alla fine degli anni ’90 si è assistito alla diffusione di un numero esorbitante di rotatorie, che hanno sostituito semafori e incroci pericolosi. Vista la loro forma, alcuni amministratori locali illuminati hanno pensato che sarebbero state perfette per esporre opere d’arte tridimensionali. Ma, invece di finanziare altre statue dedicate alle donne, le rotatorie si sono trasformate in esposizioni kitsch di prodotti locali travestiti da arte contemporanea.
Le tradizioni culinarie dell’Emilia-Romagna, in particolare, hanno ispirato gli artisti più di ogni altro luogo. E così accade che una rotonda di Bibbiano ospiti un gigantesco pezzo di parmigiano in marmo; Ferrara ha eretto un monumento alla salama da sugo (salame tradizionale di maiale, fortemente aromatizzato con spezie e vino rosso); mentre Modena ha raddoppiato la posta in gioco, accogliendo i suoi visitatori con omaggi all’aceto balsamico, reso come un’enorme goccia nera che sembra più un clistere, e al vino Lambrusco, sotto forma di un torreggiante grappolo di sfere di vetro sovradimensionate che vogliono ricordare l’uva.
Di fronte al gusto discutibile di molte di queste opere, ci si chiede se non sia meglio demolirle e non avere alcuna scultura. Del resto, dopo la rimozione di molte statue confederate negli Stati Uniti, come quella del generale Lee, l’iconoclastia è diventata un tema caldo anche in Italia.
In realtà, ci siamo già passati. Dopo la caduta di Mussolini, la defascistizzazione del Paese iniziò con la distruzione delle stesse effigi del dittatore. Anche se un paio di volte sono passate inosservate, come l’obelisco alto trentasei metri con la scritta “MUSSOLINI”, ancora oggi casualmente in piedi a Roma, per esempio.

Obeliscum, Rome
Restando in tema, nel 2019 e nel 2020 la statua del giornalista italiano Indro Montanelli a Milano è stata vandalizzata due volte. Diverse associazioni hanno chiesto la rimozione totale della statua (senza successo), considerando la militanza fascista di Montanelli e il fatto che, durante l’invasione dell’Etiopia, l’allora ventiseienne scrittore comprò e sposò una ragazza locale di dodici anni.
Ma se siamo stati complessivamente attenti a mettere un po’ di distanza tra noi e la nostra eredità fascista, una figura vistosa è sempre sfuggita alle punizioni sociali.
Ad Anversa è stata rimossa la statua del re Leopoldo II del Belgio e a Bristol è stata abbattuta quella del mercante di schiavi Edward Colston, ma proprio accanto alla stazione ferroviaria di Genova, in alto su una colonna circondata da figure allegoriche, si trova ancora un giovane e pensoso Cristoforo Colombo.
Chissà se è arrivata a lui (o alla maggior parte degli italiani, se è per questo) la notizia che decine di monumenti molto simili sono stati dimessi negli Stati Uniti, o che Città del Messico sta sostituendo uno dei suoi omologhi con la scultura di una donna indigena?
Come spiegheremo ai compagni genovesi di Colombo – e di fatto all’intero Paese – che uno dei nostri più celebri eroi nazionali non si è limitato a scoprire le Americhe, ma ha anche dato il via allo sfruttamento sistematico delle popolazioni indigene?
Se da un lato rabbrividisco all’idea di avvicinarmi a un gruppo di anziani liguri per istruirli su questo fatto, dall’altro sono anche consapevole che è giunto il momento di riconsiderare questi aspetti della nostra storia e della nostra identità culturale.
L’Italia è notoriamente, e spesso, descritta come “una nazione di santi, poeti e navigatori”, quest’ultimo riferito principalmente a Colombo. Comincio a chiedermi cosa significhi che questi tre elementi demografici siano così radicati nella nostra identità nazionale, prima di ricordare rapidamente che la stessa espressione, così frequentemente citata dalla stampa italiana, proviene dalla propaganda fascista, ideata nientemeno che da Mussolini. Forse dovremmo ripensare anche a questo.

Cristoforo Colombo, Genova