A Prato non si dice “moda”, si dice “tessile”. Ed è così da sempre. Qui la visibilità arriva solo se i capi sono davvero fatti bene, perché ogni aspetto del tessuto diventa un fatto culturale. Da un lato, le colline ondulate della Toscana. Dall’altro, le superfici metalliche delle fabbriche. Quelle tessili, che dagli anni ’60 hanno trasformato Prato in uno dei poli industriali più importanti al mondo per la produzione sostenibile di filati e tessuti destinati alla moda e all’arredo. Oggi il suo distretto tessile conta circa 2.000 imprese, dove lavorano oltre 15.000 persone – non solo locals – arrivate da tutta Italia e fuori. Un legame col tessile che dipende dalla sua conformazione geografica: nel Medioevo la grande quantità di torrenti d’acqua e la diffusione della pastorizia portano alla nascita delle prime “gualchiere”: gli opifici in cui la lana veniva lavorata a mano per diventare tessuto. Attorno a questa lavorazione primaria nascono via via tintorie, filature, tessiture: una protoindustria artigiana già ben connessa con i mercati europei. A metà ‘800, Prato accelera. Arrivano le macchine, le turbine, i telai meccanici. Si inizia a parlare di distretto, al punto che la città viene soprannominata la “Manchester della Toscana”.

Oggi circa l’80% di ciò che viene prodotto a Prato deriva da fibre rigenerate, ossia da materiali post-consumo e di scarto provenienti da tutto il mondo. La trasformazione è tutt’altro che semplice e avviene tramite una decina circa di passaggi, tra cui la selezione del colore, il lavaggio e la strecciatura, con un macchinario che, con denti e lame, apre il tessuto, riducendolo in brandelli e fili. I cenci vengono successivamente vaporizzati per eliminare la cellulosa, quindi filati, tessuti e rifiniti. Il tutto a dar forma ad un processo di virtuoso segnato da standard e protocolli “green” come l’OEKO-TEX® Standard 100 (che attesta l’assenza di sostanze nocive nei tessuti) e il GRS – Global Recycled Standard (che certifica l’origine da materiale riciclato e processi produttivi responsabili).
Il sapere tessile, però, non vive solo all’interno delle sue fabbriche: si è sedimentato nelle case, nelle abitudini, nella memoria delle persone. È diventato cultura. E, come ogni cultura viva, continua a rigenerarsi: per questo, dal 2003, nel centro storico di Prato si trova il più grande centro italiano interamente dedicato all’arte tessile, oltre a essere tra i più importanti anche a livello internazionale. Il Museo del Tessuto abita gli spazi dell’ex fabbrica Campolmi – una delle più antiche della città – di cui conserva ancora la sua grande ciminiera, che svetta nel cortile giallo pastello. Un patrimonio culturale ricchissimo – di circa 6000 reperti – che inizia a prendere forma nel 1975 con la collezione privata dell’imprenditore pratese e grande collezionista Loriano Bertini. A questo nucleo iniziale si aggiungono centinaia di tessuti copti ed egiziani, frammenti paleocristiani, broccati rinascimentali e anche esempi dell’industria tessile moderna. Il tutto per dare forma a un corpo di oggetti e manufatti straordinario, che oggi rivive grazie alle mostre temporanee che rivelano il legame tra la moda di oggi e le professioni e i settori diversi: il cinema, il teatro, le grandi Maison. «Il nostro ruolo – racconta Laura Fiesoli, coordinatrice delle collezioni contemporanee – è rendere accessibili contenuti spesso tecnici, con uno sguardo sempre più attento all’inclusività». Ogni mostra nasce da una ricerca, una donazione, una collaborazione. E porta con sé uno sguardo nuovo sul tessile.

L’incontro tra il sapere artigianale e la responsabilità ambientale ha dato vita, in tempi recenti, a una nuova generazione di imprese. Realtà che sfuggono alla logica dei trend stagionali, poco interessate alla sola performance commerciale, e sempre più coinvolte in progetti sociali, nella diffusione della cultura della durabilità e nella creazione di capi monomaterici, rigenerabili e biodegradabili. È questa l’idea alla base di Rifò, brand nato nel 2017 da Nicolò Cipriani con l’obiettivo di proporre un’alternativa produttiva, rileggendo in chiave contemporanea la pratica di rigenerazione dei cenciaioli che, racconta Eleonora Marini, responsabile comunicazione di Rifò, «fino a pochi anni fa veniva considerata quasi marginale, una necessità, più che un valore». Noi abbiamo provato a riportarla al centro, in tempi in cui la sostenibilità nel mondo della moda era ancora un tema di nicchia». Ogni passaggio della loro produzione – dalla cernita alla filatura, dalla confezione alla rifinizione – avviene nel raggio di 30 km, tramite una rete di circa 40 realtà artigianali selezionate per competenze e “storicità”. «Questi mestieri sono una ricchezza del territorio e rappresentano un made in Italy che rischia di sparire a causa della mancanza di un cambio generazionale», continua Marini. Ecco perché Rifò porta avanti anche progetti sociali come Nei Nostri Panni, nato per formare nuove figure professionali – trasportando il know-how artigianale (compreso quello dei cenciaioli) – nel settore tessile, rivolto a persone in situazione di vulnerabilità, in particolare migranti.

Arianna e Tessa Moroder. Courtesy Lottozero
Altri laboratori tessili, come Lottozero, hanno scelto un approccio più curatoriale. Nato da un’idea delle sorelle Arianna e Tessa Moroder, il progetto prende forma all’interno dell’ex magazzino del nonno materno, rimasto chiuso per decenni. Inaugurato nel 2016, oggi è un laboratorio che fa gravitare attorno al mondo del tessile storici e artigiani, brand e designer, studenti e istituzioni, realtà che solitamente non si intrecciano facilmente e che qui invece fanno rete attraverso spazi di lavoro comuni, progetti e residenze. «La cross-contamination è la nostra forza. Le idee nascono così, da incontri inaspettati». Il che rende Lottozero anche un catalizzatore: porta nuove energie in città, accoglie persone che magari avrebbero prodotto altrove e le convince a rimanere. Infatti, oltre alla creazione di risorse digitali accessibili a tutti e alla promozione di oltre cento brand responsabili nell’area “Sustainable Fashion Directory”, offre servizi di consulenza ai brand che desiderano trasferire la produzione all’interno del distretto.
Prato non corrisponde all’immagine della Toscana da cartolina. Tantomeno a quella di un grigio agglomerato industriale: è una città che fonda la propria bellezza sulla storia recente, sulla comunità di persone che per decenni ha fondato tutto sulla conoscenza del tessile, raggiungendo una qualità produttiva e standard di sostenibilità diventati un riferimento a livello globale. Qualcosa che tiene insieme passato e futuro, come un filo, apparentemente sottile. Ma che, a ben guardare, tesse ogni giorno una nuova narrazione culturale, fatta di reti, competenze e possibilità.








