La buona arte spesso nasce da un felice incontro tra luoghi ispiratori e artisti di talento. Pensa a Botticelli e Firenze, Michelangelo e Roma, Tiziano e Venezia, Giorgio Morandi e Bologna.
A parte brevi viaggi in Italia e tre visite in Svizzera verso la fine della sua vita, Morandi non lasciò quasi mai la sua città natale, facendo vacanze solo sugli Appennini vicini per sfuggire all’afa estiva.
Si potrebbe dire che non doveva viaggiare affatto: era il mondo che si radunava alla sua porta, aspettando pazientemente di incontrare l’artista.
“La mia unica ambizione è godermi la pace e la tranquillità di cui ho bisogno per lavorare, ma sono stato privato di questa pace mentale da quando ho ricevuto un premio alla Biennale di San Paolo in Brasile, due anni fa. Ora ricevo più visitatori dall’estero in un mese di quanti ne abbia mai ricevuti in dieci anni della mia vita” si lamentò scherzosamente nel 1960.
Morandi amava Bologna. La trovava persino più bella di Firenze, anche se, per sua stessa ammissione, la prima non poteva vantare opere d’arte importanti come la seconda.
Soprattutto, sentiva che Bologna si adattava al suo temperamento.
I critici si sono spesso dilettati nell’identificare l’artista con la sua città natale.
Presentando Morandi al pubblico americano, un articolo del 1949 su Bazaar diceva: “Conduce a Bologna la stessa vita borghese della maggior parte dei professori che insegnano nella famosa università di quella città”.
La vita di Morandi era, infatti, fatta di piccoli eventi, attentamente pianificati a un ritmo lento, senza le stravaganze solitamente associate a una personalità artistica. Il suo modo di vestire, elegante ma sobrio, sembrava attentamente studiato per non farlo risaltare – un compito particolarmente difficile, considerando la sua notevole altezza.
Nato nel 1890, Morandi era il primo di cinque figli: un fratello, morto a 11 anni, e tre sorelle.
Dopo la morte del padre nel 1909, Morandi divenne il capo famiglia. Si trasferirono in una casa in Via Fondazza, che sarebbe poi diventata un luogo di pellegrinaggio per intellettuali, giornalisti e collezionisti. Non si sposò mai – non ci sono tracce di alcun tipo di relazione sentimentale – e nemmeno le sue tre sorelle, i quattro vissero insieme per tutta la vita.
Era una vita completamente dedicata al lavoro nello studio, interrotta solo dalle lezioni di incisione che teneva all’accademia di belle arti; occasionali passeggiate pomeridiane sotto i portici della città; sporadiche visite alla chiesa di Santa Maria dei Servi, dove Morandi sedeva accanto alla Maestà di Cimabue, ascoltando l’organo che suonava Bach.
Bologna è ovunque nelle nature morte di Morandi. È nei rossi scuri e nelle tonalità ambrate della sua pittura; nei colli allungati delle sue bottiglie, che ricordano le torri medievali della città; nel ritmo delle sue composizioni, che sembrano echeggiare la sequenza paratattica dei portici della città.
E poi ci sono i paesaggi.
La maggior parte di essi furono dipinti a Grizzana, un sonnolento villaggio di montagna, che Morandi visitava per le vacanze estive ogni anno dal 1913.
La leggenda narra che l’artista fosse stato invitato a una festa dove una ricca signora raccontava a tutti del suo recente viaggio in Polinesia francese, descrivendo il paesaggio lì come il migliore del mondo. Quando chiese cosa ne pensasse il pittore, lui rispose: “Guardi, io so qual è il paesaggio più bello del mondo… È salendo verso Grizzana; a un certo punto c’è una curva e lì, uscendo da quella curva, c’è il paesaggio più bello del mondo”.
Lì, nel 1959, costruì una casa che colpisce per modestia e sobrietà.
Morandi la progettò con la stessa semplicità e candore con cui un bambino ne disegnerebbe una per un compito: una facciata quadrata, una porta, quattro finestre, un tetto di tegole con un camino, un giardino con alcune piante. (Per inciso, il fotografo Luigi Ghirri, che scattò alcune incomparabili foto degli studi di Morandi sia a Bologna che a Grizzana, viveva in una casa molto simile).
Oggi, la casa di Morandi a Grizzana è un piccolo museo dove tutto è conservato come fu lasciato alla morte dell’ultima sorella dell’artista.
Si visita quelle stanze con lo stesso rispetto che si riserva ai luoghi religiosi: muovendosi lentamente, mantenendo il silenzio, per non disturbare i ricordi che vi sono conservati.
Nel salotto, un’iconica libreria di Franco Albini ospita le letture del suo maestro: una combinazione molto rivelatrice di cataloghi dedicati all’opera dell’artista; un paio di manuali sui funghi, di cui Morandi era ghiotto; una selezione di letteratura europea: Calvino, Celine, Buzzati prima di quasi l’intero catalogo di Bacchelli, “I Buddenbrook” di Thomas Mann ma non “La montagna incantata”, “Il rosso e il nero” di Stendhal, Tolstoj, Balzac, Cechov, il “”Journal di Delacroix.
Qua e là, segni dei proprietari sono sparsi per la casa, causando la sensazione leggermente sgradevole che Morandi e le sue sorelle potrebbero riapparire in qualsiasi momento per reclamare ciò che era loro: un vaso di mimose secche sul tavolo della cucina, un barattolo di ovomaltina – lo stesso tipo che il pittore usava nelle sue nature morte – alcune immagini devozionali alle pareti, biancheria accuratamente riposta negli armadi.
Al piano di sopra, una porta bianca si apre per rivelare lo studio di Morandi, illuminato da abbondante luce proveniente da tre finestre, il vero lusso della casa. Da lì, Morandi scrutava i dintorni, dipingendo più e più volte il suo amato paesaggio.
Pochissimo è cambiato: si possono ancora vedere gli stessi due fienili e la stessa strada bianca di tanti suoi dipinti.
Come con le sue nature morte, che Morandi ha continuato a studiare per sei decenni, i suoi paesaggi nascono dall’amore e dalla dedizione per gli stessi soggetti/luoghi.
Eppure, non ci si stanca mai di guardare quei dipinti. In effetti, i paesaggi più belli del mondo.