Ci sono una serie di termini ed espressioni italiani che sono difficili da tradurre in inglese. Qualche esempio: la parola sfizio, che significa assecondare un impulso solo per il gusto di farlo; sprezzatura, atteggiamento studiato di disattenzione; scarpetta, asciugando il sugo rimasto su un piatto con un pezzo di pane. E poi ce ne sono alcuni che richiedono più di qualche parola per essere spiegati (più simili, diciamo, a un articolo di 1.200 parole), quelli che comprendono un’intera sottocultura dell’intera penisola: uno di questi è tamarro, sia un aggettivo che un sostantivo caratteristico, che, più che una parola, è un intero stile di vita a sé stante.
I tamarri sembrano avvalersi di una sorta di pacchetto “di stile” che include scarpe da ginnastica Nike Shox, o preferibilmente quelle patchwork 2Chainz x Versace, con le quali colpiscono il marciapiede in tandem esibendo una sorta di camminata pigra e oscillante che alcuni potrebbero chiamare “spavalderia”. I pantaloni sono quasi sempre jeans, anche se i pantaloni della tuta potrebbero fare la loro apparizione. I primi sono tagliuzzati, strappati e skinny – punti bonus se bianchi – e tirati qualche centimetro sotto i fianchi, tenuti in posizione da una vistosa cintura. Una fibbia con sigla è un must, di solito una “LV” per Louis Vuitton o la “G” intrecciata di Gucci, così come un cinturino fantasia; il motivo a scacchi è uno dei preferiti dai fan, anche se andrà bene una stampa riconoscibile di Louis Vuitton o Gucci, da abbinare alle rispettive fibbie. Più in alto, abbiamo forse il capo tamarro più identificabile di tutti: la maglietta firmata. Emporio Armani, Gucci, Palm Angels: più grande è il logo, meglio è. Completa il tutto con vistosi occhiali da sole firmati, un berretto da baseball firmato, una borsa firmata (a tracolla o a marsupio) e uno spruzzo generosissimo di Dior Sauvage Eau de Parfum “per uomo”. (Anche se esistono certamente tamarre donne – si pensi al bauletto di Louis Vuitton, o agli stivali sopra il ginocchio con gonne iper-mini – è un termine con connotazioni prevalentemente maschili).
C’erano alcuni capisaldi del tamarri nei primi anni 2000, quando questa cultura raggiunse davvero l’apice: la maglietta A-Style su cui il logo era una rappresentazione non così sottile di due figure stilizzate impegnate in un coito, l’inspiegabilmente onnipresente stile college americano con la felpa con cappuccio dei Rams 23 e, peggio di tutto, i jeans ANGELDEVIL con ali d’angelo stampate sulle natiche.
Curiosamente, alcune case di alta moda italiane si rivolgono ampiamente all’estetica tamarro, offrendo articoli di mercato inferiore per soddisfare la domanda, in particolare Gucci, Versace, Dolce & Gabbana ed Emporio Armani. Una maglietta “semplice” di uno di questi marchi può costare qualche centinaio di euro, una cifra che i tamarri sono disposti a spendere, poiché il marchio è della massima importanza. Ostentazione ed esibizioni esagerate di ricchezza segnano l’estetica: non è il cotone di alta qualità, né la fit science, a guidare le loro abitudini di acquisto, ma, soprattutto, il logo, inutile se non in bella mostra. In questo modo, la tamarragine è l’antitesi del “lusso tranquillo”.
Tamarragine, piuttosto, è una cosa rumorosa, come la musica che ascoltano i suoi sostenitori, di solito la peggiore di quella popolare in un dato zeitgeist. Pensa all’EDM commerciale in stile Gabry-Ponte dei primi anni 2000, o alla musica trap più recente. Il locale o la discoteca è il ritrovo dei tamarri, e se riescono a prenotare un tavolo e stappare qualche bottiglia, tanto meglio.

Nike Shox; Photo Courtesy of Rino Porrovecchio
Sebbene “tamarro” sia onnipresente nel lessico italiano, la parola non è di origine latina, ma araba: “tammār”, che significa “mercante di datteri”, si riferiva a un individuo di basso ceto sociale, un commerciante giunto in città dalla campagna in cerca di occasioni per arricchirsi. Originario dell’Italia meridionale – dove l’influenza araba è forte a livello linguistico, culturale e gastronomico – “tamarro” alla fine sostituì “villano”, una parola umiliante per una persona proveniente da zone rurali, più o meno equivalente all’inglese “villain”, con entrambi originari del latino “villanus” (interessante notare il filo conduttore della percezione negativa degli outsiders). Il fatto che questo termine sia diventato dispregiativo puzza di classismo e ricorda a chi scrive il termine in lingua inglese “new money”, che si riferisce letteralmente a coloro che hanno raggiunto i propri scopi (relativamente) di recente ma che comprende anche una cultura di sfacciataggine e/o rozzezza. Il concetto è forse meglio riassunto ne “I Leoni di Sicilia”, la nuova serie tratta dal best-seller di Stefania Auci sulla famiglia Florio di Sicilia: quando il mercante calabrese Vincenzo Florio, che si è fatto da sé, invita a cena l’intera aristocrazia palermitana, quest’ultima storce il naso per l’eccessiva sfarzosità della sua casa. Uno degli invitati osserva: “Maggiore è lo sforzo, più ci si allontana da esso”.
Allo stesso modo, la tamarragine è più diffusa tra i “nuovi ricchi” e le classi lavoratrici, con molti che risparmiano specificamente per acquistare beni di lusso o scegliere prodotti contraffatti (il mercato italiano dei prodotti contraffatti ha raggiunto l’incredibile cifra di 8,7 miliardi di euro nel 2019). Anche così, la tamarragine si riferisce più a un’estetica che a una descrizione di classe, di cui anche molti italiani di alto profilo, soprattutto calciatori, si considerano membri.
Quando un concetto si diffonde in tutta Italia, le varianti regionali della parola iniziano a spuntare come funghi. “Tamarro” è il più compreso in tutta la penisola, insieme a “zarro” e “truzzo”, ma in tutto il Paese esistono infinite varianti della parola: “gabibbo” deriva dall’eritreo “habib” (“amico venuto da lontano” ) ed è la forma genovese che, per vicinanza culturale, si trasformò nel “gabillo” usato in Sardegna. A Roma si usa “coatto”, o “boro”; a Bologna “maraglio”; a Napoli “cuozzo”. E poi, piuttosto tristemente nota, abbiamo la variante milanese, “maranza”, che ha un’origine tipicamente non PC: la fusione delle parole “marocchino” (“marocchino”) e “zanza”, uno slang locale per un truffatore o imbroglione. Il termine è stato coniato dai paninari di Milano negli anni ’80 per riferirsi a coloro che percepivano come teppisti (anche se probabilmente i paninari non erano così diversi dai tamarri, almeno nello spirito).

"La danza dei maranza"
È questo tipo di tamarro che ha suscitato scalpore negli ultimi anni. Queste maranze sono caratterizzate da tute da ginnastica Lacoste e Nike (la parte superiore con cerniera fino al mento), gilet imbottiti, marsupi firmati (i “sacoche”), capelli tagliati sfumati e, immancabilmente, scarpe da ginnastica Nike TN: un vero e proprio ” outfit drip”, come direbbero loro. Il genere è forse celebrato al meglio dall’inno Italodance del 2018 “La danza dei maranza” di Alex Teddy e Dance Rocker, che onora il clubbing, la “notte” e le “persone che ballano”. Sebbene inizialmente abbia guadagnato popolarità in contesti satirici online – un meme virale immaginava che tutte le maranze rispondessero all’introduzione di “Alicante” di Gambino come un segnale di pipistrello – “maranza” ha iniziato ad assumere connotazioni negative nel discorso dei media mainstream nel 2022. La crisi delle “baby gang” – un aumento delle aggressioni di strada e dei furti per mano dei giovani locali – i notiziari si agganciano a questa tendenza di Internet, usando “maranza” come “sinonimo di ‘baby gang’, quasi a voler rinominare il presunto “emergenza”, come sostiene Vincenzo Marino in un articolo dal titolo “Da tamarro a bullo in tuta con borsetta: chi è il ‘maranza’ oggi” per Vice.
Le rappresentazioni collegano il termine allo slang giovanile, alla criminalità e, soprattutto, alle testate di destra, tracciano anche collegamenti con specifici background etnici, un facile capro espiatorio per l’aumento della violenza nella metropoli. Resta da vedere dove si svilupperà la parola da qui in poi.
Pur insistendo sulla tamaraggine come concetto italiano, non intendo dire che non ci siano tamarri all’estero; in effetti, il mondo ne è pieno, esistendo come sottoculture diverse e più specifiche. I chavs d’Inghilterra non sarebbero mai associati ai guidos di Jersey Shore, ma agli occhi degli italiani sono tutti basati su principi simili: tamarri in forme internazionali.