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Il Trionfo dello Spirito Umano ne La Vita è Bella di Roberto Benigni

Come la Tragicommedia Rende Onore alle sofferenze della Comunità Ebraica Italiana

“Il senso del film sta nel suo nome: La vita è bella“.

La mattina del 10 settembre 1943, i nazisti arrivarono a Roma. Quella stessa sera, mio nonno, Nonno Guido, allora tredicenne, si sedette con i genitori, il fratello e la sorella attorno a un tavolo da pranzo inquietantemente silenzioso. La famiglia consumò il pasto fino a quando il mio bisnonno Saul si alzò e presumibilmente pronunciò le seguenti parole: “Bambini, ora dobbiamo lasciare l’appartamento. Non potremo restare insieme. Dobbiamo partire immediatamente perché i tedeschi stanno entrando a Roma e stanno prendendo gli ebrei”.

Solo poche ore dopo, mio nonno e la sua famiglia fuggirono dalla capitale in preda alla frenesia, dopo aver abbandonato i piatti sporchi su una tovaglia piena di briciole. Per i nove mesi successivi, sfuggirono agli orrori dei campi di sterminio e delle camere a gas, lottando giorno dopo giorno per la sopravvivenza nell’Italia occupata dai nazisti. Penso spesso a cosa sarebbe potuto accadere se il mio bisnonno non avesse preso le notizie così seriamente. Mio nonno sarebbe stato catturato come i 1.259 ebrei che vivevano nel ghetto di Roma – il suo vivace quartiere ebraico – e che furono radunati come bestiame la mattina del 16 ottobre 1943 e mandati a morire durante il Rastrellamento del Ghetto di Roma? Di questi deportati, solo quindici uomini e una donna sopravvissero, e altre centinaia furono detenute nel corso di quei nove mesi. La maggior parte di loro morì ad Auschwitz il giorno stesso del loro arrivo, come lo zio di mio nonno, Alberto. Se Saul non avesse agito così rapidamente, Nonno Guido sarebbe sopravvissuto? Io sarei qui? È impossibile non chiederselo.

Quando i miei fratelli, i miei cugini e io eravamo bambini, pregavamo mio nonno, oggi novantunenne, di raccontarci storie sulla guerra. Nonno Guido è un uomo profondamente intellettuale, ma allo stesso tempo semplice, che crede nell’importanza del contesto come nell’arte di inzuppare il pane nel latte zuccherato. Con nostro grande disappunto all’epoca, questo significava che i racconti che desideravamo ascoltare sulle terrificanti esperienze che aveva affrontato durante la fuga iniziavano di solito con approfondite lezioni di storia moderna. Ricordo ancora la mia mano appiccicosa che stringeva la sua durante le vacanze estive a San Vigilio di Marebbe, con le imponenti Dolomiti intorno a noi, e un brivido che si faceva strada lungo la schiena mentre raccontava i molti incidenti ravvicinati che aveva vissuto durante quei nove lunghi mesi di clandestinità. 

Anni dopo, avrei guardato per la prima volta il film di Roberto Benigni del 1997 “La vita è bella”. È stata una delle esperienze cinematografiche più viscerali e strazianti della mia vita. Il film mi ha commosso nel profondo, aggiungendo nuovi strati di significato alle storie che mio nonno mi aveva raccontato sulla sua sofferenza a causa dei nazisti. Scritto, diretto e interpretato dal sensazionale Roberto Benigni, il film “La vita è bella”, acclamato dalla critica, rimane impresso nella memoria anche dopo i titoli di coda.

Benigni utilizza con tatto il linguaggio universale della commedia per trasmettere gli orrori inimmaginabili dell’Olocausto senza ridicolizzare – o banalizzare – la sua tragedia. In totale, circa 7.172 ebrei italiani morirono nell’Olocausto, cifra che sale a 8.879 se si tiene conto del territorio dell’isola di Rodi, che all’epoca era sotto il dominio italiano. Benigni, uno degli artisti più popolari d’Italia, era ben consapevole di avere a che fare con un argomento estremamente delicato e che l’inserimento della comicità nella rappresentazione di un evento così tragico avrebbe inevitabilmente suscitato polemiche. Sebbene abbia lavorato a stretto contatto con il consulente storico italo-ebraico Marcello Pezzetti e con il sopravvissuto di Auschwitz Shlomo Venezia per la rappresentazione dell’Olocausto, il regista ha spesso dichiarato che la sua intenzione non è mai stata quella di un’opera completamente accurata dal punto di vista storico; piuttosto, “La vita è bella” è una storia sullo spirito umano, volta a onorare la sofferenza della comunità ebraica italiana. Forse la sua genialità sta nel fatto che è gioiosa e devastante in egual misura. Nonostante l’abbia visto più volte di quante ne possa contare, ogni volta che lo metto in onda mi ritrovo a piangere e a ridere in modo incontrollato.

La brillante tragicommedia ruota attorno alla storia dell’infinitamente ottimista Guido Orefice, interpretato in modo impeccabile dallo stesso Benigni. Guido (che per coincidenza ha lo stesso nome di battesimo di mio nonno) è un proprietario di una libreria ebreo-italiana che si trova costretto a utilizzare i poteri della sua immaginazione per proteggere suo figlio dalle tenebre della guerra. Ma la storia non è solo una storia di sventura. La prima metà de “La vita” è spensierata e tremendamente divertente. Il racconto inizia nel 1939 nel Regno d’Italia, dove le dolci colline toscane e l’affascinante città di Arezzo dipingono il quadro di un idilliaco paradiso italiano. Guido lavora come cameriere al Grand Hotel, il suo mondo è plasmato dall’umorismo e dalla ferma convinzione che l’amore sia in grado di sostenere e trasformare. Ben presto incontra e si innamora di Dora, una giovane insegnante già fidanzata con un ricco uomo d’affari. Dopo una serie di incontri “casuali” tra i due, uno dei quali vede Guido impersonare assurdamente un membro del Partito Nazionale Fascista, Dora si innamora rapidamente del suo carisma da clown e della sua affascinante ingenuità.

Qualche anno dopo, Guido e Dora sono sposati e hanno un figlio, Giosuè; ma l’anno è il 1944, i nazisti sono entrati in Italia e le deportazioni sono ormai in corso. L’atmosfera è cambiata drasticamente, rendendo ancora più palpabile il contrasto tra le colline assolate della Toscana e le nuvole tempestose della guerra. In una scena, vediamo Guido e il piccolo Giosuè passeggiare per le strade di Arezzo. Giosué si ferma davanti a una pasticceria, scruta le leccornie zuccherine nella vetrina davanti a lui e chiede al padre se possono portarne un po’ a casa alla mamma. Mentre il bambino fissa con desiderio i dolci, un grande cartello aleggia sopra la sua testa: vietato l’ingresso agli ebrei e ai cani. La curiosità di Giosuè si sposta improvvisamente; individua il cartello e usa il dito indice, come farebbero tutti i bambini della sua età che stanno appena imparando a leggere, per guidare la frase. Motteggiando il cartello, Giosué pone al padre una domanda ovvia: Perché? Perché gli ebrei e i cani non possono entrare, papȧ? Questa scena, breve e dura, colpisce sempre nel segno; la domanda di Giosué è ovvia, persino banale, ma è proprio la sua innocenza a renderla profondamente commovente. Sappiamo tutti cosa chiede in realtà il bambino. Perché non siamo desiderati qui?

Come è tipico di Guido, egli si inventa subito una spiegazione umoristica per nascondere al figlio l’oscura realtà di quelle parole. Guido spiega che ognuno può – e deve – fare quello che vuole. Scherza su una ferramenta in fondo alla strada che vieta l’ingresso a cavalli e spagnoli, e su un farmacista di sua conoscenza che accoglie tutti tranne gli uomini proprietari di canguri. L’antisemitismo, insinua, è solo un’insignificante questione di gusto. Per fortuna, il piccolo Giosuè di cinque anni sembra soddisfatto di questa improbabile spiegazione e padre e figlio proseguono il loro cammino.

Nella seconda parte de “La vita è bella”, vediamo la vita felice di Guido, Dora e Giosué andare in frantumi. La famiglia viene separata quando Guido e Giosuè vengono deportati in un campo di concentramento, dove l’ingegnosità dell’amorevole padre viene davvero a galla. Vengono mandati nei loro alloggi designati e assistiamo alla reazione di un Guido sbalordito di fronte alla fame dei prigionieri e alle condizioni di sporcizia della caserma. Maestro di speranza e di zelo, si riprende subito e finge che l’ambiente desolante faccia parte di un elaborato gioco. Quando Giosuè si chiede quando potranno andarsene, Guido spiega che prima devono partecipare al gioco come tutti gli altri. Solo quando avranno guadagnato mille punti, riceveranno il premio finale: un carro armato e il ricongiungimento con la mamma.

In un’altra scena, Guido e numerosi prigionieri maschi sono in fila per un controllo sanitario. Quando il medico nazista che ispeziona ogni prigioniero si avvicina, Guido lo riconosce dai tempi in cui lavorava al Grand Hotel di Arezzo. Il medico era stato un visitatore abituale e tra i due si era creata un’improbabile amicizia basata sulla reciproca passione per gli indovinelli. Solo quando i due uomini si trovano faccia a faccia, il dottore riconosce finalmente il prigioniero che ha davanti. Guido, dice con la bocca. In una scena successiva, il dottore si avvicina a Guido e gli dice che devono trovare un momento per parlare in privato; il suo tono riservato è urgente e un Guido disperato spera che il dottore abbia avuto pietà di un vecchio amico. Per una frazione di secondo, anche noi siamo speranzosi. Potrebbe essere il lieto fine del film? Guido scopre con orrore che l’appello urgente del dottore non ha nulla a che fare con un potenziale piano di fuga, ma riguarda un enigma che gli è impossibile risolvere.

La disperazione sul volto di Guido è straziante e mi ricorda sempre una storia che mio nonno mi raccontò a proposito delle misure disperate (e incredibilmente avventate) che suo padre prese per salvare la sua famiglia durante la guerra. Nel frenetico tentativo di scoprire cosa fosse successo al fratello di sua moglie, lo zio Alberto, che era stato detenuto dopo che un informatore aveva segnalato la sua posizione ai tedeschi in cambio di cinquecentomila lire (circa trecento euro di oggi), il mio bisnonno Saul si presentò al quartier generale delle SS di Roma con mio nonno, che all’epoca doveva avere circa quattordici anni. Saul aveva conosciuto un civile diventato ufficiale delle SS prima della guerra e, come Guido, sperava che una volta assistito all’angoscia della sua famiglia, la sua umanità avrebbe eclissato il senso del dovere. Naturalmente non fu così e l’ufficiale si rifiutò di aiutare a riportare indietro lo zio Alberto. Piuttosto che arrestare Saul e mio nonno sul posto, tuttavia, scelse di non denunciare l’uomo che aveva conosciuto un tempo, la cui totale disperazione lo aveva portato, tra tutti i luoghi, alla porta del suo persecutore.

“La vita è bella” è soprattutto la storia dell’incrollabile dedizione di un padre verso la propria famiglia. Il desiderio implacabile di Guido di proteggere il figlio dagli orrori della guerra assume una dimensione struggente ed eroica. La sua sconfinata immaginazione ci permette di vedere una delle peggiori tragedie della storia recente attraverso gli occhi innocenti di un bambino, un bambino la cui fiducia incrollabile nel padre lo tiene in vita fino alla fine. Il 27 gennaio, con l’avvicinarsi del Giorno della Memoria, saranno passati settantotto anni dalla liberazione di Auschwitz e settantotto anni da quando mio nonno ha gioito per le strade di Roma, finalmente libero da una vita di latitanza. “La vita è bella” è solo uno degli innumerevoli ritratti dell’Olocausto e lascia molto in sospeso. Ma gli orrori inconcepibili di un evento del genere saranno sempre troppo complessi da trasmettere nella loro interezza, e così Roberto Benigni sceglie di presentare la tragedia nel modo che conosce meglio: non solo attraverso le atrocità della guerra, ma attraverso il trionfo dello spirito umano nei tempi più bui. Il senso del film sta nel suo nome: la vita è bella. Nonostante l’oscurità, il male e le difficoltà, è l’umanità, sempre, a prevalere.