È una giornata grigia a Roma, tira una brezza leggera e la città sembra il set di un film degli anni ’60. È già tardi mattina e, dopo aver attraversato Piazza Farnese, passo davanti al bar Perù dove qualcuno, nonostante sia ora di pranzo, si sta godendo una colazione con cornetto e cappuccino ( beata gioventù!). Camminando tra i sampietrini e le fontane delle strade irregolari e pittoresche di Roma, il mio sguardo viene catturato, non dalle grandiose facciate romane, ma da piccole oasi di caos: le botteghe di antiquariato, le ferramenta e i laboratori artigianali sparsi per tutta la città. Sono posti al limite dell’era moderna, immersi in un disordine organizzato.
Mi ritrovo davanti a una piccola bottega di antiquariato, la sua facciata fatta di cornici di legno scuro con qualche scheggiatura dovuta al passare del tempo. La vetrina stessa è leggermente opaca; un sottile strato di polvere si è posato sulla superficie, senza alcuna intenzione di andarsene.
Decido di entrare e, nel momento in cui varco la soglia, un campanellino tintinna, annunciando la mia presenza. Piatti di porcellana apparentemente fragili sono impilati ad altezze architettonicamente discutibili. Tazze da tè, da tempo separate dai loro piattini, creano un bellissimo arazzo di confusione. Alcune insegne vintage giacciono storte contro poltrone di metà secolo. Credenze non lucidate custodiscono piccoli tesori: francobolli di paesi che non esistono più, cartoline di 80 anni fa, un bottone di un trench ormai senza bottoni. Il negoziante è costretto a lasciare la sua piccola stanza sul retro – interrompendo il suo pranzo o forse un libro particolarmente avvincente – per salutarmi con un piccolo sorriso. Mi dice che è disponibile ad aiutarmi e finge di sistemare il primo scaffale che gli capita a tiro. Si tiene un po’ a distanza per non essere invadente, ma basta fare una semplice domanda perché si lanci in un monologo appassionato su tutti i pezzi che vende – e per ognuno ha una storia diversa da raccontare.
Si chiama Franco; ha una moglie e due figlie. Mi racconta che il negozio era di suo padre prima che lui lo ereditasse, e anno dopo anno lo riempie di oggetti e cose che l’hanno colpito. In questo caos, non sono proprio sicuro di come Franco riesca a trovare quello che cerca. Eppure in qualche modo ci riesce. C’è un ordine nella pazzia – una mappa che conosce solo lui e che rende il negozio unicamente suo.
Mentre chiacchieriamo, mi tolgo la giacca e la appoggio sulla prima sedia che vedo. Mi siedo sulla scala vicino alla libreria, e Franco mi offre un bicchiere d’acqua. Mi sembra che questo negozio sia un’estensione della sua casa, e mi rendo conto che non sono più abituato a ambienti così impregnati di calore umano.
Mi rendo conto che un posto è tanto più bello quando c’è empatia ed emozione, qualcosa che risveglia i nostri ricordi. Quando entro in posti come il negozio di Franco, l’odore mi riporta all’infanzia: rivedo la casa dei miei nonni, la libreria che avevano, il loro cappotto preferito. È l’odore nostalgico della polvere.

Mi ricorda una scena del film di Paolo Sorrentino La Grande Bellezza. When the protagonist Jep Gambardella is asked what he likes best, he replies: “the smell of old people’s homes.” It’s a phrase written by the director, but which belongs to all of us: a truth in which it is impossible not to recognise oneself. Lived moments continue to exist in memories, pieces of paper, paintings, books, toys, maps, photographs… Physical remnants of the passing of time.
Lascio Franco e continuo la mia lunga passeggiata, allontanandomi dal centro storico più conosciuto e arrivando a Monti. È una zona che fino a pochi anni fa era sconosciuta ai turisti, ma che negli ultimi anni ha subito una trasformazione – ed è ora piena di locali alla moda, ristoranti sushi e negozi di souvenir. Passo per la piazza centrale di Piazza della Madonna dei Monti, prendo una delle due stradine che circondano il bar di fronte alla fontana, e lascio che il mio istinto mi guidi senza pensare troppo a dove sto andando.

Dopo neanche dieci minuti, sono alla fine di Via dei Capocci, all’incrocio con Via Panisperna, e sulla sinistra c’è uno dei miei posti preferiti in tutta la città: una falegnameria, senza insegna e forse senza un vero nome ufficiale oltre a “Falegnameria e Restauro Rione Monti.”
La prima volta che mi sono imbattuto in questo negozio è stato nei miei primi anni di guida. Mi ero perso e cercavo di capire come tornare a casa, con solo il “Tuttocittà” ad aiutarmi – una mappa stradale cartacea di Roma di prima dell’era di Google Maps. Avevo preso Via dei Capocci di fretta, ma ricordo ancora come, in pochi secondi, tutti i miei nervi si siano calmati quando ho visto un falegname che lavorava sulla soglia del suo laboratorio. Dietro di lui, dentro il negozio, c’era – e c’è ancora – una montagna di attrezzi, assi, scarti e polvere.
Nei giorni di sole lo puoi trovare lì, per strada, incurante dei passanti e totalmente immerso nel suo lavoro. È una scena fuori dal tempo, rimasta da un’epoca lontana che in un modo o nell’altro ci sembra ancora vicina. Vecchio, segnato, vissuto, dimenticato e soprattutto, completamente caotico. Albert Einstein una volta disse: “Se una scrivania in disordine è segno di una mente disordinata, di cosa è segno allora una scrivania vuota?” Forse anche lui aveva osservato un artigiano del genere.
Tornare ogni tanto a quel nobile casino e supportare queste piccole attività non è solo un modo per aiutare questi proprietari e piccoli negozianti, ma un’opportunità per non perdersi nella scintillante facciata di artificio e produzione di massa dei giorni nostri. Oggigiorno, il minimalismo va per la maggiore. L’estetica “stile scandinavo” domina, e posti tutti uguali – dove tutto è pulito, semplice e luccicante – sono ovunque. (Anche se va detto che gli italiani interpretano questa estetica piuttosto male.) In qualche modo sembra meno faticoso stare in mezzo al caos, all’imperfezione, di questi vecchissimi negozi italiani. Credo che sia lì che ci sentiamo più nel nostro elemento: semplicemente esseri umani, in un ambiente profondamente umano.