Sono nata in una piccola fattoria alla periferia di Bitonto, Bari, in quella che una volta era campagna aperta e ora è città. Tutto intorno c’erano ulivi e mandorli. Sono nata sul tavolo della cucina mentre mio padre, fuori con l’ ape (il suo tre ruote), stava raccogliendo il latte dai vicini bovalani, come venivano chiamate le famiglie che allevavano mucche da latte. Mia madre ha partorito con l’aiuto di una mammara, la levatrice del villaggio. Bovalani lo eravamo anche noi. Erano gli anni ’70, e la Puglia stava cambiando faccia.
Quello che una volta intorno a noi era una coltivazione varia – campi misti di frutta, grano, pascoli, boschi e orti – è diventato, in questo decennio, un’infinita monocoltura di ulivi. Quello che gran parte della Puglia è oggi.
Quella trasformazione ha avuto un costo. La Puglia ospita ora circa 60 milioni di ulivi, ma dal 2013 la regione è sotto assedio dalla Xylella fastidiosa – un batterio originario delle Americhe, diffuso da un piccolo insetto succhiatore di linfa chiamato sputacchina. Blocca il flusso di acqua e nutrienti all’interno dell’albero, soffocandolo lentamente dall’interno. Circa un terzo degli ulivi della regione è già stato infettato e, una volta che un albero è infettato, non c’è cura – appassisce lentamente e muore nel giro di pochi anni.
È un caso di studio da manuale sulla mancanza di resilienza che crea la monocoltura. L’uniformità del paesaggio significa che la Xylella può muoversi senza interruzioni, saltando da un albero all’altro. Quello che è diventato il cardine dell’immaginario della Puglia – un’estetica venerata – è, dall’altra parte della medaglia, un simbolo della sua fragilità.

Cosimo Terlizzi
Fin da piccola – forse influenzata dai documentari sulla natura – cercavo la fauna selvatica nei cosiddetti uliveti, ma era difficile trovarla. Le tenute erano così ben curate, con erbicidi, pesticidi, aratura e potatura, che la fauna selvatica e la flora erano spinte ai margini – limitati a zone abbandonate o ai bordi delle strade. Sulla terra coltivata, era consuetudine rimuovere tutto ciò che non era considerato utile; cadevano avvelenati rari serpenti come i colubridi, piccoli uccelli e insetti che ora riconosciamo come benefici. E parallelamente a questa industrializzazione della campagna è arrivato l’abbandono delle casedde, trulli, lamie e masserie—l’architettura rurale che ricorda alla Puglia il suo passato più difficile.

Nel 1994, ho lasciato la mia terra per intraprendere studi e formazione artistica, tornando nel 2015 con il mio compagno Damien. Abbiamo comprato una lamia circondata da cespugli di santolina e l’abbiamo chiamata Lamia Santolina – una piccola casa di campagna una volta usata solo d’estate, come molte case rurali che da allora sono state trasformate in alloggi turistici. Su questo punto, ho notato un certo svuotamento di significato quando si tratta delle origini di queste strutture. Trulli, per esempio – un tempo rifugi temporanei per contadini, simbolo delle vite semplici delle famiglie povere – ora sono dotati di piscine, docce esterne e prati curati.
Le costruzioni rurali della Puglia sono esempi di strategie ecosistemiche e autosufficienti – una cultura di sopravvivenza tramandata per secoli, ora quasi cancellata in favore di tecnologie industriali ritenute più convenienti. Oggi si parla molto di architettura circolare, eppure questi progetti originali sono in gran parte dimenticati. Vivere nel sud – e specialmente in Puglia, una regione senza fiumi – significa affrontare lunghi periodi di siccità. L’architettura rurale ha risposto con intelligenza: l’acqua piovana veniva raccolta dai tetti e dai cortili e incanalata attraverso canali di pietra in cisterne sotterranee, dove veniva conservata e razionata con cura. (La Puglia potrebbe usare quello spirito di resilienza ora.)
Ho fatto della mia missione concentrarmi sulla sostanza, l’anima di questi luoghi – non solo sull’attrattiva fugace delle vacanze o il consumo usa e getta della terra. C’è una profonda saggezza nella cultura rurale pugliese che merita di essere vista. Damien ed io abbiamo iniziato ad osservare e studiare tutto ciò che sembrava sul punto di scomparire – dalla biodiversità alla fauna selvatica all’architettura vernacolare.

Abbiamo scoperto che la natura selvaggia sopravvive ancora in Puglia, ma si nasconde ai margini: lungo le strade di campagna, nella stretta striscia di terra tra l’asfalto e il muro a secco. Entra nei pochi frammenti di foresta primaria rimasti e troverai arbusti che sono sfuggiti alla portata del diserbo e alla lama dell’aratro.
Riportiamo queste piante e gli diamo una casa nei terreni della nostra lamia. Nel nostro giardino, il posto d’onore va a quelle che di solito vengono scartate come erbacce, tipo l’asfodelo e il lentisco. Sono queste le piante che attirano gli insetti capaci di tenere a bada i parassiti come la tignola dell’olivo e la cocciniglia dell’olivo. Le mettiamo al centro e le studiamo. Abbiamo deciso di smettere completamente di arare, aspettando invece – anno dopo anno – che il terreno esprima la sua memoria, fatta di semi rimasti dormienti per decenni. È così che è apparsa la Santoreggia pugliese : un’erba profumata e medicinale che cresce solo qui. Poco dopo sono arrivate diverse varietà di orchidee endemiche, come la Serapias apulica. Poi sono arrivate le farfalle – quelle rare, come la Ninfa del Corbezzolo e la Sfinge dell’Euforbia – seguite da uccellini che nidificano nei cespugli, tra cui il cardellino, con il suo canto straordinario.
Qui, abbiamo raccolto centinaia di specie di piante mediterranee, insieme agli insetti e agli animali che ora abitano la lamia nell’equilibrio naturale che è l’ecosistema. È la monocultura al suo peggio – ed esattamente il tipo di posto che sognavo da bambino appassionato di documentari sulla natura.
Anche se Lamia Santolina è principalmente uno spazio di lavoro privato, a volte ospita laboratori, mostre ed eventi aperti al pubblico. Per informazioni sulla possibilità di visitare o partecipare a eventi futuri, ti consigliamo di contattarci direttamente via email a lamia.santolina@gmail.com.