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Gli Altarini di Napoli

Prendi un vicolo, poi un altro: troverai sempre un altarino votivo

“Questi altari erano, in breve, guarnigioni tutelari della casa.”

C’è un cliché molto diffuso, sia tra i napoletani stessi che tra i turisti: Napoli come regno del sacro e del profano. Questa è una definizione che non amo molto, è un po’ come associare retoricamente la città solo al sole e al mare, quando sarebbe bene capire che la sua ricchezza si nasconde quasi sempre nell’ombra. 

La mia passione per la ricerca di questo fascino meno svelato nasce tanti anni fa, quando abitavo ai margini di Piazza Mercato: nel 2007, tra cumuli di immondizia (ricordiamo che in quel periodo Napoli affrontava una nuova ondata di “emergenza rifiuti”), spuntava qua e là la figura marmorea di un santo o di una Madonna, circondata da fiori, nastrini, fototessere di defunti, ex voto e accorate lettere di preghiere e intercessioni. Piccoli templi in miniatura con tanto di colonnine e “doni” da parte dei fedeli, che cercano di ingraziarsi la protezione santa o ringraziare per una grazia già ricevuta. Ho iniziato a fotografarli, documentandoli piano piano, finché mi sono resa conto che mappare l’intera città era un lavoro quasi impossibile.

Parlo delle edicole votive, dette anche altarini o tabernacoli: se ne incontrano quasi ovunque in città, con una frequenza maggiore nel centro storico, nei Quartieri Spagnoli, nei dintorni di Piazza Dante, nella Sanità, a Forcella. Sbucano all’improvviso, nascoste in un angolo, coperte da un’auto o circondate da motorini, illuminate da luci al neon quasi sempre blu, dedicate ora a un santo specifico ora a una Madonna. Nascoste sì, ma è impossibile non notarle: sono come i funghi, spuntano dappertutto, spesso rialzate dal pavimento e coloratissime. Certo alcune sono piccole e malmesse, ma ne esistono talmente tante che è letteralmente escluso non riuscire a vederle.

(A questo proposito sono famose “Le Sette Sorelle”, le sette Madonne campane: la Madonna dell’Arco, la Madonna delle Galline, la Madonna Pacchiana di Castello, la Madonna dei Bagni, la Madonna dell’Avvocata, la Madonna di Materdomini e infine la Madonna di Montevergine. Può capitare di trovarne una o più di una racchiusa in un altarino votivo, anche fuori Napoli. Sono così famose perché a Napoli, e in Campania, il culto mariano è particolarmente sentito, e la tradizione sacra vuole che le Madonne “ufficiali” siano sette, tutte sorelle e provenienti da diverse parti della regione, così da occupare l’intero territorio con la propria presenza. Inoltre, ogni Madonna ha un suo proprio Santuario).

Ma che origine hanno questi altarini? La matrice è greca e successivamente romana, alcuni pubblici, altri relegati solo a una funzione più intima e domestica: ogni domus infatti aveva al suo interno, in corridoi o in cortili, piccoli tabernacoli marmorei o in pietra (i più ricchi, come quello nella Casa degli Scheletri agli scavi di Ercolano, decorati con mosaici, o quello del Mosaico di Nettuno e Anfitrite con conchiglie e piccole gemme di vetro colorato) dedicati alle divinità di quel tempo. Venivano chiamati larari [dal lat. lararium, der. di Lares «Lari»] e onoravano gli Dei Lari, divinità minori protettrici della casa e della famiglia, figure della religione romana che rappresentano gli spiriti protettori degli antenati defunti e che, secondo le tradizioni romane, vegliavano sul buon andamento della famiglia, della proprietà o delle attività in generale.

Questi altari erano, in breve, guarnigioni tutelari della casa.

Naturalmente, i più diffusi erano i Lares familiares, che rappresentavano gli antenati. L’antenato veniva raffigurato con una statuetta di terracotta, legno o cera, chiamata sigillum, onorata con l’accensione di una fiammella. Ogni avvenimento importante era messo sotto la protezione dei Lari con sacrifici e offerte: per esempio il raggiungimento dell’età adulta, la partenza per un viaggio oppure il ritorno di qualcuno, il matrimonio, le nascite. Vi erano inoltre, come dicevo, anche lares pubblici: ad esempio, in campagna, diversamente dalle città, si trovavano ai crocicchi delle strade, e il culto passava dai Lares Familiares ai Lares Compitales (da compitum: crocicchio). Forse è da questi che gli altarini napoletani più moderni sono nati.

Perché si trattasse di un vero e proprio tabernacolo votivo era necessaria la presenza di un altare, una mensola, su cui porre fiori, offerte in forma di cibo o bevande (vino o sidro), piccole statuine raffiguranti gli dei a cui quella specifica familia era votata o i suoi defunti.

Erano insomma presidi tutelari della casa.

Tornando a Napoli, bisogna giungere al XVIII secolo e al regno di Carlo III di Borbone per assistere alla fioritura degli altarini per le strade della città: il merito va al suo consigliere, Padre Rocco di Massa Lubrense, che incoraggiò la costruzione delle edicole sacre a garanzia di due questioni: la prima, accendere il culto, la seconda, accendere le strade. L’illuminazione urbana difatti a quei tempi era scarsa (a causa dei costi, della scarsità di mezzi, le città all’epoca erano illuminate solo nei luoghi di maggior interesse sociale e culturale, a olio e non a gas, come avverrà successivamente), dunque grazie alla presenza di innumerevoli altarini, alla loro diffusione capillare, nasceva una sorta di embrionale illuminazione pubblica, grazie alle candele poste a “guardia” dell’altarino.

Senza doversi sottoporre al giudizio o al veto del clero, a Napoli chiunque poteva mettere in piedi un altarino: per una speciale devozione a un santo, per una grazia ricevuta, per ricordare un caro defunto, per una supplica, e grazie a questa libertà, oggi, ne incontriamo centinaia, se non migliaia (purtroppo non esiste ancora una vera e propria statistica).

Ve ne sono alcune particolarmente famose: come può passare inosservata quella dedicata a San Gennaro, Santa Rosalia e San Francesco in forma di affresco sulla Porta San Gennaro in via Foria?  E tutti, o almeno quasi tutti, hanno almeno una volta incontrato l’altarino in Piazza De Nicola, un vero e proprio tempio in miniatura, progettato niente meno che da Fernando Sanfelice e scolpito poi da Lorenzo e Domenico Antonio Vaccaro: presenta una grande struttura con il busto di san Gennaro nel centro, fu voluta e pagata dalla Deputazione del Tesoro di San Gennaro come ringraziamento per la protezione accordata dal santo alla città in occasione di varie calamità.

Come non menzionare quello dedicato a Maradona a Spaccanapoli, di fronte alla statua del Nilo, con tanto di ricciolo del Pibe de oro? E uno dei più antichi e discretamente conservati, risalente al 1884, quello della Madonna Addolorata in Via Pisanelli, eretto per esorcizzare lo spettro della morte a causa del colera? (nel 1884 a Napoli vi fu una tremenda epidemia che causò più di ottomila morti, per questo troviamo molti altarini che recano tale data).

Ve ne è inoltre una molto speciale, perfettamente contemporanea ed estremamente pop in Via Portacarrese a Montecalvario, realizzata dai ragazzi di Guerrilla Spam, un collettivo di artisti fiorentini (!) in legno e decorazioni geometriche in bianco e nero.

Personalmente preferisco gli altarini più piccoli e più nascosti, piccoli tesori da scoprire perdendosi per le strade di Napoli: di bellissimi ve ne sono in tutti i Quartieri Spagnoli e nella zona del Cavone, nei meandri meno battuti di Sanità, ma anche in zone meno centrali, come Fuorigrotta, Montesanto o Arenaccia. Ne ho incontrati in numero minore a Chiaia e al Vomero, forse perché queste zone erano meglio illuminate all’epoca? Non ne sono certa, è un’ipotesi (a questo proposito, a Chiaia ve ne è uno notevole in Vico delle Fiorentine dedicato alla Madonna dell’Arco).

Mi sono spesso domandata il motivo della mia attrazione per le edicole votive e credo che la risposta sia nell’amore per la scoperta: è impagabile la sensazione di girare un angolo e trovare un altarino che non è mai uguale al precedente, spesso soffocato tra panni stesi, scarichi di cappe e motorini, neon e fiori veri e finti. E credo che questo interesse sia appannaggio di parecchie persone, perché l’anno scorso sono spuntate delle curiose edicolette dedicate non a un santo o a una Vergine, ma a Zelda, la famosa principessa del videogioco “The Legend of Zelda”: altarini di cartone (ho potuto toccarne uno con mano) con tanto di roselline di plastica e tempietto greco. Una trovata di marketing per promuovere il lancio del nuovo gioco “The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom” che davvero mi ha stupita. Ve ne sono stati istallati tre, ma io ne ho scovati solo due.

Si tratta di una mappatura per me divertente, ma al tempo stesso importante: alcuni altarini sono malmessi o abbandonati e potrebbero scomparire o perdere la propria storia. Vero è che ce ne sono molti altri perfettamente conservati e coccolati, ma questo non deve escludere anche il recupero di quelli meno fortunati, quelli più antichi e perciò preziosi.

Trovo che l’altarino votivo napoletano (ci tengo a dire che non esistono solo a Napoli e in Campania, ma in tutta Italia e persino nel mondo, con più frequenza in America del Sud) sia un perfetto simbolo riassuntivo dello spirito della città stessa – resistenza, genialità, devozione, cura e incuria – e di alcuni dei suoi opposti assoluti – luce e ombra, marmo antico e neon pop, maestria e abbandono.

Photography by Deborah D'Addetta