Sono passati otto mesi dall’ultima volta che l’ho visto, è in città per un motivo o per l’altro, anche se non voglio chiedermi quale. Non voglio sapere perché. So solo che sono stati otto lunghi mesi e che i primi sono stati anche dolorosi. L’ultima volta ho giurato che non l’avrei più rivisto, ma sembra che io non mantenga mai queste promesse quando si tratta di lui.
Stiamo attraversando le strade di Monteverde – il mio quartiere, quello che mi piace chiamare il mio “mondo verde”, perfettamente caratteristico – dopo che mi è venuto a prendere giù al portone del mio palazzo a sei piani color rosa baby. C’è silenzio o piccole chiacchiere, e il suo corpo abbraccia il mio profondamente fragile. Il primo istinto è quello di scacciarlo, ma non ricordo l’ultima volta che sono stata abbracciata così, quindi lascio correre.
“Prendiamo un gelato”, mi dice guardandomi dall’alto in basso.
Entriamo nel minuscolo negozio situato in una semplice piazza ai margini del quartiere. È il tipo di gelateria in cui gli odori sono inebrianti e che si conosce solo grazie al passaparola. I miei occhi si muovono verso l’alto e verso il basso, leggendo ogni gusto fino a raggiungere il mio preferito: pistacchio cremoso, mai eccessivamente dolce, di un perfetto color giallo-verde pallido. Lui ordina tre palline: pistacchio, poi Nutella e frutti di bosco.
“Panna?” chiede la donna dietro il bancone.
“Dai”, risponde lui, “Perché no?”.
“Per te?” mi chiede.
“No, niente” rispondo.
Per quanto abbia voglia di tuffarmi, le farfalle occupano ancora tutto lo spazio del mio stomaco. Gira il cono tra le dita per assaggiare ogni singolo gusto e mi porge un piccolo cucchiaio di plastica. Fa una pausa tra un gusto e l’altro per permettermi di assaggiare.
“Qual è il tuo preferito?” chiedo.
“Pistacchio, sempre pistacchio”, risponde mentre si pulisce le pieghe della bocca con il tovagliolo stropicciato che era avvolto intorno al cono.
Annuisco: “Anche il mio”.
C’è ancora silenzio e, mentre la sua alta statura mi sovrasta, ci avviamo verso il parco. La mia mente inizia a vagare. Ci sono così tante cose che non so di lui: in qualche modo rimane sempre un mistero, ma ogni volta che siamo insieme rivela involontariamente un piccolo pezzo della sua vita. Afferro ogni pezzo e lo metto in una tasca invisibile. Ci sono i dettagli più ovvi – dove è cresciuto, quanti fratelli ha e che lavoro fa – e poi ci sono i piccoli ritmi a cui si muove o le scelte che fa che coincidono con le mie. La prima è il gelato al pistacchio, solo che lui sceglie il cono e io preferisco la coppetta. Entrambi conosciamo quasi tutte le parole di “Chariot” di Gavin DeGraw, ma credo di saperne di più io alla fine. Quando siamo fuori e sentiamo la risata di un bambino innocente, non continuiamo a camminare ma ci fermiamo, osserviamo e sorridiamo. Ha sogni e ambizioni, prima sul lavoro e poi forse sulla vita, anche se io conosco solo un po’ il primo. Lui è della Bilancia – per lo più equilibrato, affascinante, diplomatico – e io del Toro – testarda, emotiva, ostinata. Lui è sempre in ritardo, mentre io sono sempre puntuale.
Mi tolgo dalla testa il momento in cui ci sfioriamo spalla a spalla sotto gli ampi pini di Villa Pamphili. Scorge un gruppo di cinque ragazzi che si passano un pallone da calcio e gli si illuminano gli occhi. Quando chiede se può unirsi a loro, i loro occhi si illuminano a loro volta. Mi siedo su un ceppo d’albero a guardare la partita, mentre il parco risuona di risate e dei suoi incitamenti a suon di “bravissimo”.
Scrivo alla mia amica cercando di dirle come mi sento, anche se non lo so nemmeno io.
“Passerà, Ella. Come tutto, passerà”, mi risponde lei. E credo che questa sia la cosa che più mi spaventa: la vita che passa per un motivo o per l’altro e la persona che ami che la segue, che alla fine ti lascia indietro.