“A volte penso che qui viviamo solo a metà. Gli italiani vivono fino in fondo,” scrisse Ernest Hemingway a sua sorella nel 1919, al suo ritorno negli Stati Uniti; aveva appena prestato servizio in Italia come autista di ambulanze per la Croce Rossa Americana durante la Prima Guerra Mondiale. Conosciuto come l’macho
icona della letteratura del XX secolo e per la sua personalità più grande della vita – lo si poteva trovare a correre con i tori a Pamplona, a pescare in alto mare nei Caraibi o a correre in auto a Key West, Florida – l’autore nato in Illinois abbracciò lo stile di vita edonistico che tanto ammirava dell’Italia, catturandolo sui tasti di una macchina da scrivere. Sebbene il suo tipico stile di scrittura semplice ed economico possa sembrare in contrasto con l’energia sfrenata dell’Italia, riuscì a catturare, ad esempio, le indulgenze del Carnevale di Venezia, in Di là dal fiume e tra gli alberi, o il piacere dei sostanziosi pasti italiani, e un sacco di bevute, in Addio alle armi. Sebbene i viaggi avrebbero influenzato diverse delle opere semi-autobiografiche di Hemingway – le sue esperienze in Francia, Spagna e Kenya, per citarne alcune, permearono le sue pubblicazioni più acclamate, tra cui Festa mobile, Per chi suona la campana e Le nevi del Kilimanjaro – il suo rapporto con l’Italia era speciale.
La prima volta dell’autore in Italia, immortalata nel suo romanzo del 1929 Addio alle armi, fu all’età di 18 anni, quando lasciò un lavoro di reporter in Kansas nel 1918 per arruolarsi come autista di ambulanze della Croce Rossa, raggiungendo il fronte italiano a Fossalta di Piave via Milano, Schio e Bassano del Grappa. La routine quotidiana di Hemingway qui includeva anche la distribuzione di caffè, cioccolata, sigarette e cartoline ai soldati italiani in trincea. Dopo solo un mese di servizio, fu gravemente ferito dall’esplosione di una granata di mortaio e fu mandato per una lunga convalescenza all’ospedale della Croce Rossa Americana di Milano.
(Se ti trovi nella zona, Villa Ca’Erizzo Luca è l’edificio del quindicesimo secolo dove lui, insieme ad altri volontari della Prima Guerra Mondiale, fu di stanza, ora sede del Museo Hemingway e della Grande Guerra. A breve distanza dal museo c’è il luogo dove l’autore fu ferito vicino al fiume Piave, segnato da un memoriale.)
L’esperienza di Hemingway in ospedale fu tutt’altro che normale, grazie in parte a copiose quantità di alcol e in parte a una storia d’amore memorabile con un’infermiera americana, Agnes von Kurowsky. Le circostanze esatte e le ragioni della loro rottura non sono definitivamente documentate, ma il dolore, un’esperienza formativa per Hemingway, lo è: la storia d’amore tra il Tenente Frederic Henry e la sua infermiera, Catherine Barkley, in Addio alle armi richiama la sua esperienza personale.
Prima di tornare negli Stati Uniti, Hemingway trascorse del tempo a Stresa, sul Lago Maggiore, un posto dove sarebbe tornato spesso nel corso della sua vita. Qui, alloggiava al Grand Hotel des Iles Borromées nella stanza 106 (ora chiamata Suite Hemingway), bevendo martini dry e ammirando quello che definiva uno dei più bei laghi italiani. Questo posto sarebbe stato romanzato nel suo primo romanzo ambientato in Veneto; il sedicente “vecchio fan del Veneto” ne ambientò due nella regione.
Ma fu solo dopo la Seconda Guerra Mondiale che Hemingway scoprì la bellezza di Venezia, catturandola in Di là dal fiume e tra gli alberi (1950), anch’esso basato su una delle famigerate storie d’amore di Hemingway – questa volta con Adriana Ivancich, una contessa italiana di 19 anni, 30 anni più giovane di lui, che incontrò mentre visitava la regione con la sua terza moglie, Mary. La storia della relazione appassionata di un colonnello americano anziano con una giovane contessa italiana a Venezia–non cerca davvero di nasconderlo, vero?–è scritta in una prosa insolitamente lirica, e molti credono che questa deviazione dal suo solito stile scarno rifletta l’intensità emotiva dei suoi sentimenti per Adriana.
A Venezia, Hemingway soggiornava al lussuoso Gritti Palace Hotel, dove troverai un’altra Suite Presidenziale a lui intitolata, oppure sull’isola allora quasi deserta di Torcello, al più minimalista Locanda Cipriani, scrivendo e cacciando anatre nelle lagune. (Uno dei suoi posti preferiti per quest’ultima attività era lungo le rive del fiume Tagliamento.)
Diventò amico intimo di Giuseppe Cipriani, che fondò il mitico Harry’s Bar (a pochi passi dall’Hotel Gritti), un posto che Hemingway chiamava “casa” e che era il punto d’incontro tra il colonnello e la contessa menzionati prima. Passava molte notti–e giorni–lì a bere. Il Montgomery Martini era uno dei suoi preferiti, 15 parti di gin e una di vermouth, si dice che sia stato chiamato così in onore del maresciallo britannico Bernard Montgomery. Avrebbe combattuto il nemico solo se avesse avuto 15 soldati contro uno. È ancora un cocktail forte e da provare assolutamente quando si visita Venezia oggi.
I primi incontri di Hemingway con l’amore, la perdita e la vita in Italia sarebbero stati indelebili. Credeva che la vita fosse vissuta al massimo qui, che anche nei tempi di guerra più orribili, una voglia di vivere non potesse essere estinta e si trovava in bicchieri di vino traboccanti e pasti sontuosi, amori appassionati e viste mozzafiato sul lago–cose meravigliosamente edonistiche che si possono ancora trovare qui, quasi 100 anni dopo.