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Cy Twombly: il pittore mediterraneo

Un vassoio per la colazione con frittelle, salsa e una tazza su un letto disordinato in una stanza d'albergo a luce soffusa; lampada sul comodino, loghi a destra. Hotel d'Inghilterra Roma, Starhotels Collezione - Vassoio per la colazione con pancake, sciroppo e frutti di bosco su un letto stropicciato in una camera elegante.

C’è una foto di un giovane Cy Twombly a Roma, in piedi immobile accanto alla mano del Colosso di Costantino, sul Campidoglio. La fotografia, scattata dal collega artista, amico e occasionale amante Robert Rauschenberg, è un ricordo iconico del primo viaggio della coppia in Europa, nell’estate del 1952.

L’uso di vernice bianca, gesso e cementite nel lavoro di Twombly è stato a lungo collegato a questo viaggio. Fu durante i suoi viaggi in Nord Africa e in Italia nel 1952-53 che introdusse cambiamenti significativi nei suoi dipinti, abbandonando fondi scuri e bituminosi in favore di toni più chiari. Dev’essere stata l’impressione fatta dall’impatto abbagliante della luce del sud sul marmo bianco delle rovine antiche, o il costante bagliore del Mar Mediterraneo che rifletteva il sole, all’orizzonte.

Nel 1957 Twombly lasciò gli Stati Uniti per l’Italia, di nuovo. Invece delle persistenti incomprensioni di cui il suo lavoro aveva sofferto a New York fin dai tempi delle sue prime mostre, l’artista trovò un pubblico diverso a Roma, una città in cui si era già fatto una buona reputazione come pittore. Scrittori, letterati e poeti in particolare, apprezzavano l’arte di Twombly.

“Roma era il posto dove dovevano stare gli espatriati anticonformisti del mondo anglofono. Twombly era deciso su questo, paragonando la Roma degli anni ’50 alla Parigi della generazione perduta degli anni ’20” scrive Richard Leeman nella sua monografia sull’artista. Infatti, lo stile di vita della Dolce Vita della capitale italiana era inconcepibile per l’America puritana dell’epoca.

Alla fine degli anni ’50 Twombly sposò l’aristocratica Luisa Tatiana Franchetti, il cui fratello era un importante collezionista di arte contemporanea, inclusi i suoi dipinti. La coppia si trasferì in un palazzo del XVII secolo in Via di Monserrato, che fu poi fotografato da Horst P. Horst per Vogue nel 1966. Nella più famosa di quelle fotografie, Twombly siede su una poltrona con aria assente, piuttosto elegante in un completo di lino bianco. È circondato dai suoi stessi dipinti, appesi con noncuranza, e da interni raffinati: poltrone barocche dorate rivestite in colori pastello e crema, busti e teste di imperatori romani, soffitti alti e pavimenti in marmo. Il ritratto di un dandy moderno, completamente a suo agio con la sua nuova identità italiana.

Vivendo e lavorando in Italia, lontano dal mondo dell’arte americano iper-scrutinante, Twombly si sentiva libero di sperimentare. Parlando di un corpus di opere realizzate all’inizio degli anni ’60, che aveva dipinto con impasto spesso, spremendo i colori direttamente dai tubetti, notò che attingevano a “una libertà di indulgente rilascio sensuale che solo vivere all’estero permetteva”. Un’opera di quegli anni, appropriatamente intitolata “Gli Italiani”, mostra un cuore rosso e “roma” sotto la firma dell’artista.

Una delle sue attività preferite a Roma era sedersi al tavolo di un caffè che gli piaceva, nel tardo pomeriggio, mangiando gelato alla vaniglia mentre osservava e commentava i passanti. Si ritrovava a passare inosservato accanto a personaggi come Paul Sartre e Simone de Beavoir, origliando e assorbendo discorsi. Twombly amava anche le gite giornaliere nella campagna a nord della città. Passeggiava nel paesaggio etrusco, godendosi la frequente vista di greggi di pecore che pascolavano placidamente, ispezionando il terreno alla ricerca di frammenti di antichità.

A Roma, Twombly aveva raffinato il suo linguaggio artistico distintivo, permeato di letteratura classica, storia antica e mitologia. Era un’arte che procedeva per tentativi ed errori, informata da ricordi e ritrovamenti frammentari (come l’archeologia e la poesia antica); costantemente sospesa tra la frustrazione di non possedere un testo completo, e il piacere di riempire i vuoti con la storia dell’artista stesso.

Lettere, parole, titoli, citazioni di poesie, invocazioni di dei, semidei ed eroi: le tele di Twombly erano diventate un terreno d’incontro di segni e significati.

Gradualmente, la sua pratica abbracciò fonti più ampie come filosofia, matematica e geometria, astronomia e storia naturale, trasformandosi in una struttura enciclopedica, un “sistema di sistemi”, in cui l’artista suggeriva connessioni tra idee e personaggi.

Grazie a Nicola del Roscio, suo assistente e compagno di tanti anni, alla fine degli anni ’70 Twombly scoprì Gaeta, un’antica cittadina tra Roma e Napoli, situata su un promontorio che si affaccia sul Mar Tirreno, dove comprò una casa su una collina. A Gaeta dipinse la maggior parte delle sue ultime opere, compresa la serie delle “Quattro Stagioni” e il potente “Bacco”.

Ponendo fine a un dibattito durato tutta la vita sul fatto che fosse un artista americano o europeo, nella sua ultima intervista, Twombly affermò di essere “un pittore mediterraneo”, come il mare che lo aveva affascinato fin da bambino. Non è difficile immaginarlo mentre guarda le onde da una delle finestre della sua casa a Gaeta, notando i leggeri e perpetui cambiamenti sulla superficie dell’acqua.

Del Roscio ricorda vividamente gli ultimi giorni di Twombly: “Parlava costantemente d’arte nel modo più sorprendente, interessante e razionale, delle sue cause, del suo processo mentale di immaginazione e formazione delle idee”.

L’ultima volta che Twombly parlò d’arte, lo fece in termini lirici: “Ho fatto arte che si rigenera da sola. Mi sono divertito così tanto a farla. Oh! L’ho amata così tanto”. Poi, dopo una lunga pausa, aggiunse: “La forza del ricordo che rimane”.