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Cortina: Sciando sulle spalle dei giganti

“Mi direte non ami Cortina, ami sciare.”

“Lascia perdere, non c’è alcuna possibilità che cambi idea. È Cortina-centrica”. Sorrido mentre ascolto queste parole uscire dalla bocca del mio ragazzo, mentre una nostra amica cerca di convincermi ad attraversare il confine tra Veneto e Trentino per raggiungerla da qualche parte in Alta Badia. Non ha idea di quanta gente abbia tentato, invano, a farmi varcare quel confine. Continua a ripetere “Cortina è vecchia scuola e le piste sono troppo strette”, e “C’è troppa gente, ovunque”. Io rimango in silenzio, incassando tranquillamente gli insulti così spesso rivolti alla conca dove ho trascorso gran parte delle mie estati e dei miei inverni da bambina da essermi indifferenti. Una vallata così bella da essere incoronata la Regina delle Dolomiti.

La storia d’amore tra la mia famiglia e l’Ampezzo è più vecchia di quella tra questa valle e le Olimpiadi. Mia nonna, dopo un periodo trascorso a casa di un’amica, ha iniziato a frequentare una piccola pensione gestita da suore in centro “quando avevo 16 anni, fai tu i conti”. Sorpresa dal sentirsi dire che correva l’anno 1950, mi confida: “Mi sentivo ancora una ragazzina quando, più di mezzo secolo dopo, scorrazzavo con te e tuo fratello per i boschi del Faloria a raccogliere fragoline di bosco”. La ragazzina aveva passato i settant’anni: esempio perfetto dell’effetto « Cortina » sulle donne della mia famiglia. Per non essere da meno, mia madre, che non ha attaccato gli sci al chiodo neppure in gravidanza, è andata a fare un numero spropositato di vasche nella vecchia piscina comunale di Guargné il giorno prima di mettermi al mondo. A detta sua, quel giorno era stanca e ha preferito « evitare di andarci in bici » come era solita fare. Davanti ad un tale fervore, mio padre e mio nonno non hanno che potuto rassegnarsi a passare ogni minuto libero tra queste montagne. Il mio ragazzo inizia a capire: gli toccherà la stessa sorte. All’inizio era un po’ prevenuto. Dirò anche a voi quello che ho detto a lui. 

Di Cortina si è detto tanto. Come di tutte le cose belle, di Cortina si è detto troppo. Non fatevi abbagliare. Dimenticate le lunghe fila alle seggiovie della Tofana durante le vacanze di Natale. Cancellate le folle che ingorgano il centro durante il ponte dell’otto dicembre. Eliminate il luccichio delle fibbie dorate, del pelo dei visoni, della piega delle signore che escono ad una ad una da Liborio.

A metà gennaio, quando i fasti natalizi non sono che un’eco e i coriandoli di Carnevale non hanno ancora colorato i san pietrini del Corso, la conca ampezzana torna quella in cui sono cresciuta. I visoni sono tornati con le loro padrone in città, o riposano stremati sul fondo delle cabine armadio di legno, e l’unica folla che troverete sarà di fronte al Bar Sport, dove si radunano i ragazzi del posto.

La mattina, dalla porta finestra della mia camera, guardo il sole scaldare la neve. Il Bigontina, piccolo affluente del Boite, scorre a pochi metri, riempie il silenzio in cui bevo il primo caffè della giornata. Qualche decina di minuti dopo, una volta convinta la mia macchina ad arrampicarsi fino al parcheggio del Col Drusciè, sfilo i miei Head dal portasci, m’infilo gli scarponi. Clic, clac. Non faccio a tempo a godermi la sensazione delle lamine tagliare la neve che già me ne devo privare, staccarmi gli sci, metterli in spalla, per prendere l’ovovia che risale il colle.

Fino a pochi anni fa, al suo posto c’era una seggiovia costruita per le Olimpiadi del ‘56, immersa nel bosco, che si arrampicava sul versante più ripido e roccioso di questa piccola montagna. (Prima ancora, dalla fine degli anni ‘30, c’era una slittovia! Non avete idea di cosa sia? Neppure io, prima che mia nonna mi facesse una lezione in merito. Ve la risparmio, qui una foto.) Con i miei amici, ci provavamo l’un l’altro di essere coraggiosi tenendo aperta la sbarra di questo trabiccolo di ferro, gelido sotto le nostre giovani natiche. Ci aggrappavamo ai manici a destra e sinistra durante la lentissima risalta, pregando silenziosamente che la nostra goliardia non ci fosse fatale. Le nostre risate coprivano le urla del nostro Maestro di sci, che si perdevano, beatamente ignorate, nel dirupo alle nostre spalle. 

Ora l’ovovia passa sopra al Drusciè A, la pista da slalom considerata, nel’56, la più difficile nella storia dei Giochi. La pista dove mia madre veniva a sfogare le sue angosce giovanili. Un Toni Sailer al femminile, nonché incinta, aggrediva una pista dopo l’altra, sempre la stessa, in una gara contro di sé. La mia pista-sfogo, la Franchetti, è su un’altra montagna, sul versante opposto della valle. La vedo dalla vetrata dell’ovovia, ombrosa come sempre, mi guarda accigliata, come a darmi della traditrice. Ma oggi non ho furie da sfogare, solo qualche ombra di nostalgia, voglio salire sopra le nuvole. Per colpa dei mondiali del 2021, oggi  il Drusciè A è più largo – mia madre direbbe più facile – e monopolizza lo sguardo mentre l’ovetto in cui sono arriva a destinazione. Potrei farne una, mi dico. Invece punto la funivia, voglio salire di più, ancora di più, il più possibile.

Una volta smontata dalla funivia e dalla successiva seggiovia – se vi piace la comodità, lasciate stare Ra Valles – mi ritrovo qualche decina di metri sopra le nuvole. Il paese è nascosto nel bianco, del campanile non resta che la consapevolezza che da qualche parte ci sia, come i ricordi creati in questa valle che affollano la mia mente. I primi sci, la prima sbronza, la prima serata a ballare sulla terrazza instabile del Belvedere, il primo e l’ultimo amore.

Il Faloria, da dove la Franchetti mi guarda ancora inacidita, si staglia di fronte a me; a destra spunta l’Antelao, e a sinistra il Cristallo ed il Pomagagnon impediscono allo sguardo di vagare. Ma soprattutto, sotto di me, il bus di Tofana, vuoto come può esserlo solo un lunedì di metà gennaio, chiama a gran voce le mie lamine. Stringo gli scarponi, molleggio, m’infilo una cuffietta nell’orecchio. E mi lancio tra le sue braccia.

Non posso descrivervi la sensazione di fendere la neve, di passare da uno spigolo all’altro, di attaccare la montagna, di sfidare la gravità con la forza delle gambe e del bacino. Non so dirvi che cosa vuol dire sterzare a destra alla fine del Bus, puntando la Forcella Rossa, non fermarsi, non frenare, continuare a cercare la velocità, il vento, il freddo in viso, imboccare la Forcella, conquistarla a curve strette, per poi allargarle sempre di più man mano che la pista si apre, ed arrivare all’attacco della seggiovia senza fiato.

Ancora? Ancora. Risalgo. Clic, clac. Ancora ed ancora, fino a quando le gambe non reggono più, fino a che le mie io passate e future, i cui sguardi persi nel cielo grigio di qualche capitale europea non attendono che di essere paralleli a questo muro di neve, decretano di aver accumulato abbastanza ricordi, d’essere ebbre di gelida velocità, colme di euforica adrenalina. Abbastanza per arrivare al prossimo dicembre.

Mi direte non ami Cortina, ami sciare. Guardo il sole morire dietro l’Antelao mentre poso i miei sci stremati sopra il tettuccio della macchina. Amerei sciare se non sapessi che questo gigante di pietra mi guiderà verso casa? Se non sapessi che la stanchezza non conta perché il Cristallo s’incendierà, la sua roccia risplendente del fuoco dell’enrosadira? Che da questo fuoco, prima di me, si sonùùùo fatte nutrire mia madre e mia nonna, ma anche Alberto Tomba, Kristian Ghedina, Paolo de Chiesa, Yvonne Rüegg. E Lindsey Vonn, che dopo il primo allenamento della stagione ha detto: “Se le Olimpiadi non fossero a Cortina, non ci proverei neanche.”

A febbraio, i Giochi torneranno, dopo settant’anni, a far brillare questa valle. Lindsey Vonn vi tornerà a cercare la gloria, a più di dieci anni dal ritiro e oltre venti dal primo podio, conquistato qui, all’ombra delle Tofane. Starà a Sofia Goggia e Federica Brignone tentare di soffiarle la vittoria ed entrare nella storia. Dello sci e dell’Ampezzo. E, in qualche modo, della mia famiglia. Nei racconti che un giorno farò a mia figlia tentando di tramandarle l’emozione di sciare sulle spalle dei giganti.

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