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Il pasticcere Corrado Assenza racconta i profumi, i dolci e l’eredità culinaria della Sicilia

Dagli occhi gentili e dall’atteggiamento disinvolto non ci si aspetterebbe mai che sia uno dei pasticceri più rinomati al mondo. Anche se non conoscete il nome di Corrado Assenza (ma lo riconoscerete se avete guardato Chef’s Table Pastry, è il protagonista del secondo episodio), avrete sicuramente sentito parlare di quella pasticceria in Sicilia. Il Caffè Sicilia ha raggiunto uno status leggendario, sia per le sue apparizioni televisive sia perché la pasticceria è la quintessenza della Sicilia (dopotutto prende il nome dall’isola!). Qui, Assenza realizza versioni superlative dei dolci tradizionali siciliani con l’impegno di reperire ingredienti di altissima qualità da produttori locali, tra cui frutta biologica, pistacchi di Bronte e mandorle “Romana”, una varietà che Assenza ha contribuito a salvare dall’oblio. Questi sono i sapori che traspaiono nei suoi famosi gelati e granite, ma anche nelle cassate, nei cannoli, nel biancomangiare e nel resto della pasticceria che fa bella mostra di sé nelle vetrine del Caffè.

 

 

Passeggiando lungo le strade acciottolate di Noto, incontrerete una folla più consistente fuori dal Caffè Sicilia che davanti alle numerosissime chiese barocche e grandi edifici della città (che pure sono tanti). Sembra quasi che la pasticceria abbia contribuito ad accrescere la notorietà del luogo ponendola su una mappa quasi internazionale che tanto deve e ricorda anche il viaggio in “The White Lotus” di Daphne e Harper. Tuttavia il successo e la fama non hanno dato alla testa a Corrado Assenza: a lui piace andare in negozio ogni mattina, anche se viaggia in tutto il mondo, ospite di conferenze ed eventi in cui si spende parlando dell’importanza di sostenere i produttori locali e di preservare le tradizioni culinarie. (In alternativa, più o meno a mezzogiorno, lo si può trovare in una semplice e genuina panetteria all’angolo della strada, il suo posto preferito per pranzare)

 

 

Qui, Assenza parla dei profumi della Sicilia, dell’evoluzione di Noto e della differenza tra dolce e salato:

Quando e perché ha deciso di aprire una pasticceria? 

Sembrerà una cosa strana ai più, ma non ho mai deciso e non ho mai aperto una pasticceria! Il Caffè Sicilia esisteva prima di me, con esattezza sin dal 1892. Quando ero bambino era di proprietà e gestito da mia zia Nella, sorella di mia madre. Andavo a trovarla molto spesso – ho cominciato circa all’età di sei anni – tutti i giorni all’uscita di scuola. Salutata la zia, scappavo in laboratorio a “giocare” con i pasticceri di allora. Ho continuato a farlo fin quando, a venticinque anni, ho detto alla zia che ero pronto, con mio fratello Carlo e la mia fidanzata Nives – poi mia moglie e madre dei miei figli – a darle il cambio. La sua età era avanzata e le condizioni di salute non le consentivano più di gestire tutto al meglio. Ho solo dovuto “sentire” che era arrivato il momento di assumerne anche la responsabilità, per fortuna condivisa, e comprendere che dentro di me ero pronto a quell’avventura. Così “salpammo” il 1° luglio del 1985. 

Quali ricordi della pasticceria siciliana ha che facevano parte della sua infanzia e che significato avevano questi cibi per lei e/o per la sua famiglia?

Le giornate e la vita nel laboratorio del Caffè Sicilia erano e continuano a essere scandite dal ritmo delle stagioni, dal susseguirsi delle festività importanti, dall’arrivo di turisti, villeggianti ed immigrati di rientro che trascorrevano in paese le ferie estive. Per questo motivo i miei ricordi si riconducono a odori, a colori, a ritmi, a suoni che il susseguirsi dei giorni e delle lavorazioni in laboratorio lasciavano dentro di me. Una sorta di calendario personale non da sfogliare ma da annusare, assaggiare, produrre, vivere con trasporto e intensità.

I profumi delle spezie, talmente forti da impregnare i muri per giorni. Su tutti, la preparazione della miscela di chiodi di garofano e cannella che profumavano – e continuano a farlo – i faccioni, biscotti natalizi di Noto fatti di pasta di mandorla tostata e ripieni di marmellate e confetture. 

I colori e i profumi dei frutti: d’inverno gli agrumi, utilizzati per la produzione di marmellate e canditi; in primavera le fragoline di Noto – adesso quasi del tutto scomparse, con mio grande rammarico – per la produzione della granita; in estate i gelsi neri a invadere gli ambienti del laboratorio con il loro profumo, insieme a quello dei verdelli, i limoni estivi, verdi e profumatissimi, impiegati nella preparazione di granite e sorbetti; poi arrivavano i fichi che annunciavano la fine dell’estate. Con l’arrivo delle mele cotogne per la cotognata e il diffondersi nell’aria dell’odore della pasta reale di mandorla, utilizzata per la produzione di frutta Martorana in occasione della ricorrenza della Festa dei Defunti, giungevamo nel vivo dell’autunno.

Il profumo del miele in cottura, utilizzato per torroni e biscotti in inverno, portava con sé l’arrivo del Natale. A Pasqua, tornava il dolce profumo di mandorla, sempre legato alla produzione della Pasta Reale che era impiegata per la formatura degli agnelli pasquali. 

Bentornata primavera!

Il mio approccio al mondo della pasticceria non poteva essere estraneo e insensibile a questi ritmi, a questi profumi, al collegarli non solo ai periodi dell’anno ma anche alla percezione della temperatura dentro e fuori dal laboratorio, alla variazione dell’umidità dell’aria, causata dalle cotture della frutta per la canditura o per la produzione della cotognata. Alla frenesia del ritmo del lavoro: alta, altissima, in concomitanza con l’arrivo di una grande festa, molto bassa durante le lavorazioni da compiere seduti come la produzione degli agnelli pasquali o della frutta Martorana. 

Non ho mai frequentato una scuola professionale di pasticceria. Tutto questo ha costituito il mio personale, irripetibile, irrinunciabile quanto necessario percorso formativo.

Quando non lavora in pasticceria, quali sono i suoi posti preferiti per mangiare/bere e luoghi in cui andare in Sicilia?

Lo dico subito: mi sento una persona stabile, non un girovago. O forse sarebbe meglio dire che dedico poco tempo a cose diverse dal lavoro in laboratorio. Tuttavia lo lascio spesso per lavoro. Frequento la campagna coltivata e quella incolta di almeno tre province siciliane. Vado a trovare e scovare produttori e fornitori, molti dei quali sono, con gli anni, diventati amici. Frequento poco i luoghi della ristorazione, purtroppo deludo molti dei miei amici cuochi che troppo poco mi vedono varcare la soglia dei loro ristoranti, pizzerie, trattorie. Non ho tempo a sufficienza per poterlo fare. Quando posso, mi piace frequentare i luoghi che mi danno la percezione del tempo che passa, del gusto che cambia, i locali dei cuochi giovani di cui mi piace percepire il pensiero e la freschezza delle loro menti svelte. Una sorta di barometro per comprendere meglio dove stiamo andando.

Qual è stata la prima cosa che ha cucinato? E, tra tutte le cose che prepara ora, qual è la sua preferita sia da fare sia da mangiare?

Non ne ho memoria. Ho cucinato sempre accanto a mia madre, in casa. O meglio, aiutavo lei a cucinare. Le prime esperienze in totale autonomia risalgono agli anni della prima adolescenza, quelli delle cucine da campo dei campeggi estivi dei boy scout. Veri e propri fuochi di legna e pochissimi attrezzi a disposizioni. Prima si andava a raccogliere la legna, poi si facevano le provviste, poi si cucinava. Quel che c’era era sempre gradito. Esperienza utilissima per i successivi anni da studente fuori sede. 

Adesso mi dà grande gioia e altrettanta soddisfazione cucinare verdure fresche di stagione. Molte volte anche non coltivate, raccolte in autonomia nella campagna incolta. Mi entusiasma il loro sapore vero e pieno, la possibilità sconfinata di accostarli, assemblarli, aromatizzarli con erbe e spezie. Mi affascina la scoperta di nuovi sapori, di inattese consistenze e di incroci imprevisti. Così mi accorgo come sia fondamentale la capacità di ascolto, la disposizione alla percezione delle caratteristiche di ciascun ingrediente. Mi appare evidente quanto il risultato finale sia figlio di questa sensibilità e della conoscenza delle tecniche da applicare per la trasformazione degli ingredienti, in modo da tutelarne il profilo gustativo mettendo il lavoro del cuoco e del pasticcere a disposizione della natura degli ingredienti. Molto spesso si raggiunge questo obiettivo costruendo nuove sequenze di lavorazione, sempre più attente al controllo delle temperature e tempi di esecuzione.

Per lei la separazione tra dolce e salato è un errore concettuale ed oggi lei è un cuoco che crea e sperimenta a tutto tondo – quando ha sentito l’esigenza di scrollarsi i canoni classici della pasticceria e perché? 

Partiamo dal presupposto che sbagliare non è mai un errore. È totalmente diverso l’approccio e il punto di vista così facendo. Ma ciascuno fa quello che crede sia la cosa migliore. Io parto da quell’attenzione al mondo naturale degli ingredienti che mi fa pensare che in ciascuno di essi vi siano sali e zuccheri. In tal modo possono essere adoperati sia in versione sapida sia in versione dolce. Dall’altra parte, sono sempre stato convinto che il ruolo del cuoco comprenda sia la preparazione di pietanze sapide che di quelle dolci. Sono pure convinto che la separazione netta nell’organizzazione di un menù dei cibi sapidi da quelli dolci sia un fatto culturale, temporale e geografico. Basta cambiare luogo, epoca e contesto culturale e troviamo profondi cambiamenti a questa organizzazione dell’alimentazione delle persone.

Mi è quindi parsa naturale l’evoluzione del mio lavoro intrapresa circa venticinque anni fa. Eravamo nello scorso secolo, in un millennio diverso: mi stavano stretti i panni del pasticcere addetto solo al dolce di fine pasto o tutt’al più della prima colazione.

Mi sentivo ingabbiato al pensiero di utilizzare solo un ristrettissimo novero di ingredienti, pur essendo entusiasticamente appassionato a tanti altri. Mi rimaneva molto tempo per pensare, e di conseguenza lavorare, alle applicazioni di nuovi ingredienti nella pasticceria, fino a comprendere con gli anni successivi che la dolcezza non poteva e doveva risiedere solo alla fine di un pasto. Ho capito che c’era spazio per la pietanza dolce – a patto che fosse assolutamente naturale, senza aggiunta di esaltatori come lo zucchero – anche in un antipasto, in una pietanza a base di pasta o in un piatto con carne o pescato. Bisognava ridisegnare tutto, fare spazio alla dolcezza, trovare nuovi percorsi, elaborare nuove tecniche di lavorazione. In altre parole, ridisegnare il lavoro del cuoco. 

Ricordo che eravamo nel tempo in cui tutti nelle cucine ambivano al ruolo di “chef”. Io cercavo solo di essere un semplice addetto alla trasformazione delle materie prime in veri e propri alimenti, utilizzando le mie conoscenze scientifiche di base – chimica, fisica, botanica, zoologia, biologia – e quanto appreso e a voi raccontato prima, negli anni della mia fanciullezza e gioventù, ovvero la conoscenza del patrimonio culturale, materiale e alimentare del Popolo Siciliano. Per poi applicare la mia creatività nell’elaborazione di nuove ricette che raccogliessero ed esprimessero tutto questo processo mentale e materiale, in altre parole “culturale”. Una bellissima avventura, totalmente coinvolgente, profondamente personale. Il mio modo di esprimere il mio pensiero attraverso il lavoro che avevo scelto per passione e per determinazione.

Molti trovano i dolci siciliani, come la cassata e il cannolo, particolarmente dolci. Qual è la sua opinione? E qual è la ragione di questo profilo gustativo? 

Personalmente trovo molto zuccherata il 90% della pasticceria che assaggio. Faccio sempre distinzione tra dolcezza – quella costruita impiegando ingredienti che hanno una dolcezza propria – e zuccherosità – ottenuta aggiungendo zuccheri agli altri ingredienti. E in quest’ultimo caso molto spesso si esagera. Ma non solo in Sicilia, direi un po’ ovunque. Questo perché abbiamo sempre meno un palato allenato all’individuazione del gusto. Molto più facile percepire la dolcezza di un cibo o, per meglio dire, la sua zuccherosità. Alla fine del secondo conflitto mondiale, la dolcezza esprimeva la fine della povertà e col passare degli anni il benessere raggiunto; negli ultimi anni è diventato un problema sociale, indotto dallo strapotere dell’industria alimentare che ci ha bombardato con sempre maggiori dosi di zuccheri, molto spesso usati anche in alimenti salati. Gli anziani dicevano: “zucchero non guasta bevanda”, e quindi ne aggiungevano a piene mani. Lo zucchero da molti decenni è tra gli ingredienti a più basso costo, dà dipendenza e gli esperti di marketing lo sanno bene. 

Dall’altra parte lo zucchero riduce la capacità del palato di sentire il gusto degli ingredienti e quindi di poter percepire la qualità degli stessi utilizzati. Maggiore è la qualità, più alto è il costo dell’ingrediente. Più alta la quantità di zucchero aggiunto, minore la capacità del nostro palato di leggere la qualità bassa di un ingrediente. 

Per tutta la produzione di Caffè Sicilia preferisco scegliere gli ingredienti migliori e per farne percepire la qualità riduco al minimo l’apporto di zuccheri aggiunti. Cerco dolcezze naturali da applicare ai nostri prodotti. Li trovo, se necessario li concentro, li utilizzo in modo da elevare anche il gusto dell’ingrediente. Costruisco nuovi dolci per esaltarlo, per esprimere il momento in cui è stato raccolto, per offrire all’ospite drl Caffè Sicilia il ritmo del tempo che passa. Faccio tesoro del processo lavorativo necessario per il raggiungimento del risultato: sarà buono da utilizzare per un altro dolce, in altro momento, forse in un altro luogo.

Lei è cresciuto a Noto: come ha visto cambiare la città nel corso degli anni e che ruolo ha avuto in questo cambiamento? 

Potrebbe essere un ottimo argomento per una tesi di laurea o un dottorato di ricerca in ambito sociologico ed economico. Ci vorrebbero competenze in questi settori che non mi sento di possedere. Ma sarebbe necessario affrontare in maniera organica e strutturata l’argomento in modo da farne un’approfondita analisi. Si riesce a sapere dove andare se si ha la capacità di leggere il passato.

La Noto della mia infanzia era una cittadina dedita all’agricoltura, ai piccoli commerci dei prodotti della terra, con una ridotta conoscenza e consapevolezza del proprio passato storico. 

Le chimere delle grandi industrie del polo petrolchimico Augusta/Priolo attiravano le forze delle giovani generazioni di operai. L’emigrazione verso il nord del Paese aveva già svuotato campagne e paesi negli anni ‘60. A Noto, il mito del posto pubblico sicuro aveva invaso il paese: la classe media vedeva l’impiego pubblico come la nuova frontiera. Alla fine degli ’80 la vita economica e produttiva della cittadina era stagnante. 

Un episodico ma intenso terremoto nel dicembre del 1990 offrì la possibilità di una svolta. I fondi per il risanamento e il recupero del patrimonio immobiliare pubblico e soprattutto privato, non profondamente ma diffusamente danneggiato dal terremoto, insieme alla notorietà regalata dalle telecamere e dalle prime pagine della stampa nazionale, portarono Noto in primo piano, alla conoscenza di un grande pubblico che la scoprì per la prima volta. E con essa le città, il mare, il paesaggio del sud-est della Sicilia. Il nuovo millennio portò a Noto il turismo di un mondo ormai diventato globale. Noto diventò così ambita destinazione di un pubblico sempre più internazionale.

Il Caffè Sicilia, da luogo d’incontro della nobiltà e della borghesia locale – con la sua attenta e meticolosa cura sia dell’accoglienza quanto della proposta di una produzione dolciaria profondamente identitaria, modulata da decenni come reale espressione della cultura culinaria del Popolo Siciliano – venne riconosciuto come meta dagli appassionati del buono, dai viaggiatori a caccia di cultura locale, da chi desiderava assaporare la bontà di una produzione realmente artigianale e raffinata. Il Caffè Sicilia stesso diventò destinazione per un ampio pubblico di appassionati e cultori del buon cibo provenienti da tutto il mondo. Al Caffè Sicilia, dopo essere stato ambasciatore dell’isola nel mondo, oggi spetta il compito di attenta e raffinata avanguardia, sentinella per il suo territorio nel mare a volte tempestoso del mondo globalizzato.

Qual è un dolce o un piatto siciliano che meriterebbe un riconoscimento più ampio e perché?

Come dicevo, la Sicilia negli ultimi due decenni ha visto l’esplosione del turismo da una parte e l’irrompere degli effetti della globalizzazione dei costumi e degli stili di vita dall’altra. Una delle conseguenze di questi due fenomeni è l’abbandono, soprattutto nella ristorazione professionale, della ricchezza della cucina siciliana invernale. I turisti affollano l’Isola in primavera/estate, di conseguenza molti locali, soprattutto nei piccoli centri e nelle città medio piccole, chiudono quando non c’è richiesta. In autunno e in inverno. La cucina legata al pescato, alle verdure, al clima di quei periodi si sta perdendo. Sopravvive in ambito familiare certo, ma in casa si cucina sempre meno e sempre per un tempo più breve. Molta dell’offerta culinaria invernale ha lunghe e lente cotture che in pochi ormai riescono a gestire con buon risultato.

Qual è l’aspetto della Sicilia che vorrebbe fosse conosciuto da più persone? 

Lo avrete già compreso da tutto ciò che ho detto finora. Mi piacerebbe che della Sicilia si conoscesse di più e con maggior profondità l’immenso patrimonio di cultura materiale legata al cibo, patrimonio che s’intreccia strettamente con quello agricolo, pastorale, marinaro. In breve, potrei definirlo “patrimonio antropologico” irripetibile. Pensate quanta della cucina isolana, per esempio, è legata alle feste religiose e popolari, nelle quali riveste un ruolo fondamentale ma non l’unico; pensate quanto il ritmo della campagna e del mare condizionino la cucina e quanto questa sia influenzata dal luogo e dal clima; pensate quanto intimo sia il legame tra artigianato alimentare e quello al servizio della tavola e della cucina; pensate quanto questo sia prossimo all’arte. La più nobile espressione dell’umanità.

Potrebbe usare tre parole per descrivere la Sicilia?

Complessa, difficile, passionale.

Ha visto White Lotus ambientato in Sicilia? Se si, cosa ne pensa?

No, non l’ho visto, ma molti me ne hanno parlato. Seguo molto poco in generale il mondo televisivo.

Courtesy of Caffe' Sicilia, Noto