Così dicono i napoletani. Io, che li conosco bene, come loro figlia adottiva da più di quindici anni, so che hanno preso questo proverbio molto sul serio.
Non c’è buco a Napoli dove non ci sia qualcuno che ti vende qualcosa da mangiare, dalla più piccola nucella alla pizza che trabocca dal piatto, dal caffè ristretto alla casatiello che pesa quanto un bambino di due anni.
Perché sai, il cliché vuole il napoletano caciarone (uno a cui piace godersi la vita pigramente), esagerato, massicciamente esagerato.
“E qual è il problema?” direbbe lui, “Siamo fatti così, cioè, prendere o lasciare!”
Il fatto è che una città del genere non si può spiegare. Napoli si prende o si lascia, così come i suoi abitanti, formiche operaie sempre di fretta, con la testa piena di idee che turbinano.
C’è genio nella loro irriverente giovialità, in quell’atteggiamento napoletano di creare e risolvere problemi. Tutta questa passione trova la sua migliore espressione nel cibo e proprio per non vivere di fretta, letteralmente o meno, il cibo riflette perfettamente la natura di chi lo crea.
Sarebbe facile parlare di pizza, eppure, in questo caso, l’accento è su un altro tipo di offerta, un altro modo di vivere e godere della tradizione culinaria di Napoli.
Parlo di cibo di strada, ma non quello contemporaneo: voglio il cibo di strada che esisteva prima che il suo nome fosse inventato, quello del tarallo caldo e della birra Peroni, quello del père ‘o musso sale e limone, del paranza cuoppo, le olive avvolte come pesciolini rossi delle fiere. Voglio il cibo che mi sporca le mani e voglio mangiarlo come i veri pro, per strada e in piedi, magari anche senza fazzoletto.

Quindi che fai? Vai per chioschi, baracche, chalet, carretti ambulanti e così via e, con queste premesse, il primo posto da esplorare è sicuramente il lungomare di Mergellina.
La gente va sempre a Mergellina: d’estate, d’inverno, quando piove, quando fa caldo, soprattutto quando fa caldo. Matilde Serao, l’inimitabile cantóra delle meraviglie di Napoli, descriveva la povertà che, secoli fa, colpiva la gente dei magazzini vicino al porto, affamata e quindi piena di talento. La cucina napoletana è ricca di ricette recuperate e quella del tarallo non fa eccezione: derivato dagli avanzi dell’impasto del pane, perché nulla poteva essere buttato via, vi si aggiungevano pepe e un po’ di strutto, ingredienti saporiti che costavano poco. Più tardi, il tarallo n’zogna e pepe fu arricchito con le mandorle, definendo il moderno tarallo caldo che si trova ovunque. Una volta c’erano i tarallari, oggi basta fare due passi nel quartiere di Mergellina.
Ovviamente tarallo, pepe, mare e caldo chiamano birra ghiacciata.
I chioschi e gli chalet (che no, non hanno niente a che fare con la montagna) hanno colonizzato il lungomare, carretti che hanno messo radici e si sono ormai stabiliti in una dimora fissa con vista garantita sul Vesuvio. Vendono di tutto, ma quello che mi interessa è un’altra specialità, l’esponente del cibo di strada napoletano per eccellenza: ‘o père e’ o musso. A dire il vero, bisogna ammettere che si mangia anche in Molise e nella provincia di Foggia, ma le sue origini sono tutte campane.
Come dice il nome stesso, sono la zampa di maiale e il muso di vitello che di solito vengono serviti insieme ai quattro stomaci del vitello, compresa la trippa. Ho sentito dire che i veri intenditori preferiscono il cosiddetto centopelle, o omaso, una parte dello stomaco dei ruminanti. Vederlo mi ricorda sempre un po’ il Dottor Zoidberg, ma mi assicurano che sia delizioso. A Mergellina puoi trovare un carrettino che serve pèr’ e ‘o muss’ ancora cosparso di sale dal corno.

Non di rado, i più generosi aggiungono anche lupini, olive e peperoncino. Per lupini non intendo le vongole piccole, ma quel bel legume giallo dalla forma tondeggiante che si dovrebbe mangiare rosicchiandolo e spaccandolo.
Si trovano dappertutto nei chioschi, in sacchetti di plastica immersi nella loro salamoia. Una curiosità: nonostante siano originari dei paesi orientali, hanno trovato un ambiente favorevole alla crescita anche nel Mediterraneo, dove vengono coltivati con successo soprattutto nel sud Italia. In particolare, c’è una varietà di lupini, il cosiddetto lupinone di Vairano, che è stato addirittura eletto presidio slow food. Un cibo che ti ricorda subito l’estate, vero? Dalle mie parti, ma scommetto che è un’usanza diffusa anche altrove, li facciamo seccare e poi li usiamo come segnapunti per le cartelle della tombola.
A questo punto, però, è ora di spostarci altrove. Abbandoniamo le sponde turchesi per fare la nostra inesorabile salita. Prossima tappa: centro storico.
Non voglio offendere nessuno, ma questo non è il posto per parlare di pizza fritta, pizza a portafoglio, frittatine e crocché. È vero che quando dici Napoli, dici pizza, ma la mia ricerca oggi corre su altri binari. Ecco perché voglio dare credito a un’altra meraviglia dello street food napoletano: la parigina. Innanzitutto, Parigi non c’entra nulla. Questa specie di pizza rustica parla in dialetto perché sembra sia nata nelle cucine reali di Napoli per mano di un monsù (monsieur), un cuoco francese che l’aveva concepita come spuntino per la regina Maria Carolina d’Asburgo-Lorena. Fu poi perfezionata nella preparazione dai suoi discepoli e successivamente dagli stessi napoletani.
È un impasto di pane riccamente farcito con salsa di pomodoro, prosciutto cotto e provolone e ricoperto da uno strato di pasta sfoglia.
È il cibo da bar, o da rosticceria, senza fronzoli, senza aspirazioni da influencer. È il pranzo degli universitari, dei lavoratori frettolosi; è la cugina un po’ sottovalutata della classica pizza margherita. Ma so che c’è chi è d’accordo con me e che ama la parigina più di ogni altra cosa e soprattutto, la leccata finale delle dita è garantita.
So però che posso fare di meglio, Napoli può fare di meglio, e per scoprire a cosa mi riferisco, dobbiamo addentrarci nella veracità, nella tradizione napoletana, più precisamente nel quartiere di Porta Capuana. Qui, ancora oggi, resistente ad ogni cambiamento, ad ogni cementificazione McDonaldiana, possiamo trovare sua maestà ‘o bror ‘e purpo. Basta chiedere di Pasquale e lasciare che lui prenda il controllo.

I ricchi avevano il brodo di carne, i poveri il brodo di polpo. Giuseppe Marotta, famoso scrittore italiano del secolo scorso, lo descriveva così: “È tè marino, sa di scoglio, di alga, di fosforo, di barba di tritoni, di ascelle (o peggio) di sirene, di meravigliosa o oscena mitologia greca”.
Non è altro che polpo cotto nella sua acqua con olio, limone, prezzemolo, sale e pepe. Anticamente si vendeva in tazze come rimedio contro il freddo e se eri fortunato potevi anche beccare un pezzetto di tentacolo che, in gergo, si chiamava ranfetella. In effetti, all’inizio, si usava l’acqua di mare per cuocerlo. Oggi ovviamente queste pratiche non si usano più, ma la tradizione della coppetta è rimasta. Si potrebbe dire che il brodo di polpo è il precursore dello street food di mare napoletano, seguito dal pesce fritto, dal baccalà e dalle alici fritte, dalle alghe zeppoline, i polipettialla luciana, e la zuppa di cozze.
Il brodo di polpo è semplice, genuino, povero. Una specie di cacciucco minimale.
Insomma, una tazza di mare tra le dita.
Dopo tutta questa bontà, è probabilmente ora di digerire. Ho detto che il cliché vuole il tipico napoletano caciarone, esagerato, e il prossimo street food lo dimostra ampiamente. Però, più che uno street food è una bevanda da strada, a cui sono stati assegnati diversi nomi: alcuni lo chiamano succo di limone, qualcuno sciacquapanza, altri ancora, e quello che preferisco, gazzosa a cosce aperte (gazzosa a gambe aperte).
Ce l’hanno nel sangue la teatralità, l’arte di sapersi arrangiare, e non ne fanno mistero: i tempi moderni ci forniscono ogni sorta di medicine per la digestione, mentre quelli antichi invece prevedevano acqua frizzante fredda, succo di limone e un misero cucchiaino di bicarbonato che, mescolati velocemente, creano un turbine spumeggiante da inghiottire in fretta e, appunto, a gambe aperte per non sporcarsi. Questa panacea per ogni mal di pancia esiste ancora ed è prerogativa dei vecchi acquaioli o aquafrescai. I primi non erano altro che giovani squattrinati che, per inventarsi un mestiere, pensarono bene di vendere la merce più preziosa di tutte: l’acqua. Infatti, nei primi del ‘900, era comune imbattersi nei loro carretti itineranti, posizionati strategicamente vicino a teatri, strade pedonali, uffici e mercati. I secondi, naturale evoluzione della fortuna e dell’astuzia dei primi, invece di girovagare, si piazzavano in chioschi, poco più che minuscole nicchie incastonate tra i palazzi, adornate di limoni e arance.
Grazie alla loro inventiva dobbiamo la nascita dello sciacquapanza, il digestivo pirotecnico. I più saggi ti avvertiranno: appena il bicarbonato inizia a spumeggiare nel bicchiere, bisogna berlo tutto d’un fiato. Liberazione garantita, soprattutto se dopo i cibi salati ti avventuri ad assaggiare uno dei tanti dolci prêt-à-manger della tradizione napoletana, quelli che ti sporcheranno inesorabilmente le mani: graffe, babà, sfogliatelle ricce e frolle, fiocchi di neve , delizie al limone (delizie al limone), crostate con fragoline di bosco e panna.
Oggi gli acquafrescai rimasti a Napoli si contano sulle dita di una mano. Il miglior consiglio che posso darti è di approfittarne, anche solo per lo spettacolo che ne uscirà fuori.
La mia gloriosa ascesa quindi non può che terminare al Vomero.
A Napoli non si parla di street food a vanvera senza menzionare zeppole e panzarott. Le strade della città ne sono piene e, soprattutto nei paesi di provincia, ci sono spesso veri e propri venditori ambulanti che vendono esclusivamente queste due delizie. Gli Le zeppole non sono altro che pasta per pizza fritta e i panzarotti sono piccoli cilindri di pasta fatti con patate schiacciate, prezzemolo, sale, pepe e formaggio grattugiato, in poche parole una specie di crocché povero. Il segreto della loro croccantezza resta un mistero: non c’è panatura, non c’è farina, non c’è uovo, ma sono molto fragranti. I veri professionisti hanno ben pensato di concentrare i loro sforzi: prendi una zeppola, aprila e schiaffaci dentro un panzarott. Dopo avrai le mani piene d’olio, ma questo è lo scopo.
Tradizionalmente vengono serviti nel cuoppo, il classico imbuto di carta. Secoli fa si chiamava ” a otto” perché i venditori, vista la povertà dei napoletani che non volevano rinunciare al buon cibo, rimandavano il pagamento fino a otto giorni dal momento dell’acquisto. Oggi il cuoppo è diventato una delizia, ma all’epoca, come diceva Matilde Serao, era fatto di vari “avanzi” fritti dai panzerotti ai pesciolini chiamati fragaglia che sono gli avanzi dal fondo dei cesti dei pescivendoli […] un pezzo di carciofo, o un cuore di cavolo, o un frammento di acciuga.
Dovresti avere fame ormai. La cucina tradizionale napoletana è piena di piatti con una particolare vocazione per la strada e sarebbe impossibile nominarli tutti. Quello che posso suggerirti è di perderti: perditi per le strade di Napoli, segui i profumi, segui la folla. Fermati il più possibile per chiedere, per ascoltare, con le orecchie e con il cuore. La vera anima della città si trova nei suoi vicoli, dove il profumo del fritto e del soffritto diventa un ospite come te e ti accompagna per mano. E mangia e bevi senza preoccupazioni, perché, come dicono a Napoli, ” quatto cose te fanno cunzula’: ‘a femmena, l’argiamma, ‘o suonno…e ‘o magnà” (Quattro cose ti possono consolare: ‘na donna, i soldi, il sonno e magnà!‘)
MANGIARE
MERGELLINA/LUNGOMARE CARACCIOLO:
Chioschetto da Sasà
Da giacomino
Taralli caldi Nas’e can’
Chalet Ciro
Friggitoria osteria mediterranea
CENTRO:
Cca’ sta ‘a figlia do’ Luciano (Pasquale)
Lello delle granite
L’acquafrescaio di Piazza Trento e Trieste
Fiorenzano tripperia
Pizzeria di Matteo
Antica pasticceria carraturo
Tandem
Tarallificio Leopoldo
Friggitoria verace napoli
Sfogliatelle calde attanasio UNICA SEDE
VOMERO:
Friggitoria Vomero
Gastronomia ambrosino
Fotografia di Francesco sammarco
