È una splendida mattina a Roma. Nonostante sia ancora inverno, il sole picchia così tanto che devo togliermi il cappotto. I turisti più temerari si sono spinti oltre e vanno in giro a maniche corte. Passando davanti al Pantheon, noto persino un ragazzo in pantaloncini che si scatta un selfie con la sua fidanzata. Poco distante, la gente si raggruppa fuori dalla chiesa di San Luigi dei Francesi per vedere i dipinti di Caravaggio custoditi all’interno.
Eccitato dalla primavera in arrivo, giro l’angolo e mi dirigo al Caffè Sant’Eustachio per un espresso. Appena arrivato, mi rendo conto di non essere l’unico ad aver avuto quell’idea: il bar è pieno di gente. Un’orda rumorosa si ammassa disordinatamente all’ingresso del bar, in attesa di ordinare o di pagare la colazione. Tutti i tavoli all’esterno sono presi d’assalto. Ogni tanto un cameriere emerge dalla folla e prende freneticamente le ordinazioni prima di scomparire di nuovo nel bar.
Sebbene la totale assenza di code non mi sorprenda – siamo a Roma, dopotutto – la situazione è talmente caotica che faccio fatica a capire come raggiungere il bancone.

Noncurante della folla che ci circonda, l’uomo elegante di fronte a me ammazza il tempo rispondendo a qualche telefonata: ogni frase è più forte della precedente, così che sento l’intera conversazione. A quanto pare, qualcuno verrà citato in giudizio molto presto.
Una donna spettinata con un giubbotto bianco sbuca dal fondo del bar e grida a qualcuno dietro di me: “Caterina! Caterina! Vieni a prendere il caffè! Sta qui!”). Mi piacerebbe girarmi per controllare se Caterina indossa un piumino bianco in tinta – scommetto che lo indossa – ma a questo punto non riesco più a muovermi.
Sto seriamente pensando di rinunciare, ma decido invece di ricorrere alla mia strategia per queste emergenze, collaudata da quando sono tornato nel mio paese: fingo di essere un turista straniero simulando il mio migliore accento britannico che mi cava sempre da ogni situazione difficile. Gli italiani, ho notato, tendono a diventare immediatamente più gentili con i turisti, soprattutto se si cerca di parlare la loro lingua, e di solito ottengo ciò di cui ho bisogno in modo più facile. Me la sono cavata fingendomi inglese in ristoranti, negozi, musei e persino all’ufficio postale, una volta.
Ancora imprigionato nella folla del Caffè Sant’Eustachio, do un colpetto a un uomo alto davanti a me che è miracolosamente riuscito a raggiungere il bancone e gli chiedo di ordinare, prima in un inglese impettito, poi nella mia migliore lingua-inglese-che-cerca-di-parlare-italiano: “Scus, como posso ordinà?”. Prima che io possa congratularmi con me stesso per le mie capacità recitative, l’uomo mi guarda e, mimando l’atto di bere, mi chiede: “Uot iu uant?”, “Uno espresso, por favor”. Si gira, attira l’attenzione del barista e ordina il mio caffè prima di farsi strada verso l’uscita: “Giova’, me fai n’artro espresso pe’ ‘sto ragazzo qua? Me sa che è ‘nglese. Grazie, eh! Se vedemo domani”.
Sorseggiando il mio (meritato) caffè, finalmente libero dal caos del bar, medito sul rapporto privilegiato tra gli italiani e il caos. Ogni italiano sa che la vita nel nostro Paese è una lotta costante contro l’anarchia. La maggior parte della nostra vita quotidiana è plasmata da circostanze che non hanno alcun senso, a cominciare dalla nostra lingua: dagli infidi ventuno tempi ai sostantivi che cambiano genere e numero. Per noi sono perfettamente normali le attività commerciali chiuse il lunedì (o il martedì, o all’ora di pranzo, o in agosto, o quando piove, o quando è il compleanno del figlio del proprietario), il nostro fugace concetto di spazio personale, il taglio della pizza con i coltelli.
E tralasciamo il fatto di essere antropologicamente incapaci di fare la fila ovunque e che comunichiamo in modo rumoroso e teatrale. Queste stranezze sono caratteristiche troppo note del nostro carattere nazionale che contribuiscono al disordine che creiamo ogni volta che siamo in giro. Difficilmente cambieranno, anzi, aggiungono un po’ di pepe a qualsiasi commissione banale: perché dovremmo aspettare ordinatamente il nostro turno all’ufficio postale quando invece possiamo escogitare tanti modi ingegnosi per saltare la fila? E perché dovremmo rispettare le regole del traffico che continuano a soffocare il nostro forte senso dell’immaginazione? (Non voglio nemmeno menzionare la rotonda).

La burocrazia, su cui si fonda la nostra stessa ontologia, è forse la più grande fonte di caos nella nostra vita: le amministrazioni locali sembrano lavorare in modo completamente disgiunto dal governo centrale, il rinnovo di un documento d’identità richiede tanto tempo quanto l’ottenimento dell’autorizzazione per la costruzione di una centrale nucleare, e che dire delle marche da bollo? quei timbri fiscali ancora necessari per convalidare i documenti ufficiali, che hanno così tanti valori diversi che sembrano essere stati progettati con l’unico scopo di confondere le persone?
Inevitabilmente, la burocrazia rallenta ogni cosa – dalla proprietà di una casa, agli interventi chirurgici salvavita, al sistema legale – fino a uno stato di quasi paralisi. Una causa media in tribunale dura 2.807 giorni. Sì, sette anni e mezzo: abbastanza tempo perché un bambino cresca e si renda conto che c’è qualcosa che non va.
Nel suo formidabile libro “Gli italiani”, Luigi Barzini raccontava di richieste di risarcimento per i danni causati da Giuseppe Garibaldi e dai suoi soldati alle proprietà in Sicilia nel 1860 che venivano pagate ancora nel 1954, novantasei anni dopo, per importi che avevano perso ogni valore e significato, a eredi che avevano dimenticato il motivo per cui avevano diritto a tali risarcimenti.
Ho sempre sospettato che uno dei motivi per cui la società italiana è così caotica sia l’offerta di continue occasioni per rafforzare la nostra identità culturale. Il fatto che fissare un appuntamento in ospedale o pagare una bolletta sia così inutilmente complicato ci costringe a trovare modi per aggirare il problema, stimolando la creatività per cui siamo famosi in tutto il mondo. La famiglia, elemento fondante della cultura italiana, è coinvolta in tutto questo. Qualunque sia il problema, ci sarà sempre uno zio con qualche amico in quel ministero o un parente che lavora in quel reparto ospedaliero con il potere di aiutarci a saltare una fila o a ricevere favori di ogni tipo. Dopotutto, non è un caso che l’istituzione più duratura del Paese, la Chiesa cattolica, abbia funzionato per secoli grazie al nepotismo. (La famiglia stessa è anche in grado di provocare una confusione sconvolgente: vi siete mai seduti a un pranzo domenicale italiano?)
Quindi, ogni volta che dovete lottare per ottenere un cappuccino, rilassatevi e godetevi il viaggio. Perché, parafrasando la compianta Gina Lollobrigida in “Torna a settembre”: “Non dobbiamo avere senso! Siamo italiani!”.