Sono le 7 del mattino al Mercato Trionfale di Roma, il più antico e grande mercato rionale della città. Camminando, si respira un’aria decisamente local: i “buongiorno” risuonano nell’aria, l’odore dell’espresso forte si mescola a quello del pecorino pungente e del pescato fresco del giorno. Coppie di anziani fanno rotolare i loro carrelli pieni di generi alimentari, mentre i turisti si accalcano per raccogliere campioni gratuiti e caricare le loro borse di Parmigiano e guanciale confezionati. Per molti versi, il mercato è un microcosmo della città stessa: venditori che vantano con orgoglio prodotti tradizionali fatti “come una volta” e “de grande tradizione”, agricoltori che vendono i loro prodotti locali e, ai margini, una manciata di bancarelle gestite da immigrati che vendono ogni sorta di prodotti “internazionali” non-italiani.
La cucina iper-localizzata e iper-regionale dell’Italia è forse il più grande punto di orgoglio per gli italiani e la più grande fonte di fascinazione per i turisti che vengono a visitarla. La reputazione di questo Paese è stata costruita sulla base delle sue ricette tradizionali, dei suoi prodotti di qualità superiore e della sua venerazione per i suoi nonni e i loro segreti. Chiedete alla maggior parte degli italiani e vi diranno che la loro cucina è davvero varia: ogni città sembra avere una propria specialità, frutto di secoli di tradizione. Nel Nord del Paese, che confina con Francia, Svizzera, Austria e Slovenia, si percepiscono influenze germaniche, francesi e slave. A sud, in particolare in Sicilia, le ondate migratorie e la vicinanza con il Nord Africa hanno contribuito a creare una cucina con una evidente eredità araba e tunisina. Considerando che l’unificazione dell’Italia è avvenuta solo 150 anni fa, è logico che l’immagine prevalente che la maggior parte degli italiani ha della propria cultura alimentare sia quella di un paese composto da tanti piccoli Stati, diversi l’uno dall’altro. Ma quando si tratta di guardare all’esterno, a una possibilità di diversità che si trova al di là dello stivale, l’Italia ha un problema di chiusura. Si va oltre l’orgoglio nazionale – che è una cosa buona e meritata – e si sconfina nel gastronazionalismo – che non lo è.
Questo orgoglio regionale è facilmente riscontrabile anche da un osservatore casuale quando legge i menù dei ristoranti, la maggior parte dei quali, in qualsiasi città o paese italiano, offre variazioni della stessa cosa. Dio non voglia che si confondano i supplì con gli arancini, o che si ordini il pesto a Trapani e ci si aspetti di trovare il corrispettivo genovese. Questo stesso senso del dettaglio, però, non si estende oltre i propri confini: quando si trova cibo non italiano, è troppo spesso con ampie generalizzazioni. Il popolare ristorante Chopstick, in Prati, ne è un perfetto esempio: il loro marketing si vanta di “autentica cucina asiatica” mentre vende tutt’altro che autentici maki di salmone affumicato fritto e crema di formaggio, insieme alla loro versione di bao bun condita (sì condita, non riempita) con crocchette di formaggio o roast beef, mentre il loro marketing visivo mostra donne dall’aspetto mediterraneo che indossano copricapi decorati o burka a stampa animalier, con in mano bacchette mentre mangiano tacos di tartare di tonno.
I ristoranti asiatici, in particolare, sembrano dover rispondere all’intero continente, senza tenere in alcun conto la cucina di uno specifico Paese e tanto meno le differenze regionali, e la maggior parte di essi è stata “sterilizzata” per conformarsi a uno sguardo eurocentrico e a una tavolozza occidentale. Troppo spesso hanno un menù “segreto” che offre le loro autentiche specialità regionali, che non viene nemmeno pubblicizzato agli occidentali.

Salmon and cream cheese maki
La neofobia, per quanto riguarda il cibo, è definita dalla riluttanza o dall’apprensione a provare o mangiare cibi nuovi in contrasto alla cultura dominante. Un recente studio ha intervistato 1.317 consumatori italiani sulle loro abitudini alimentari, scoprendo che gli intervistati neofobici – la maggior parte dei quali ha più di 55 anni – non mangiano i cosiddetti cibi “etnici”. In Italia, si tratta essenzialmente di qualsiasi cibo che non sia italiano, ma anche qui esiste una gerarchia. I cibi considerati “etnici” (termine di per sé offensivo per indicare il cibo di tutti i popoli che non sono bianchi) sono percepiti come “malsani”, “unti” e “maleodoranti”. Queste sono etichette che sono state attribuite al cibo cinese nella sua interezza, per citare un esempio, mentre il cibo giapponese ha la percezione di essere più sano, più fresco e più accessibile al palato degli italiani. I ristoranti di sushi e Poke (spesso scambiati e accomunati alla cucina giapponese) sono aumentati del 117% in Italia dal 2021. La maggior parte di essi è di proprietà di persone di origine cinese, di cui storicamente si è registrata una maggiore migrazione in Italia rispetto alle persone di origine giapponese o hawaiana. Ho parlato con il proprietario di un popolare ristorante di sushi a Roma, che ha scelto di rimanere anonimo. Ha confermato queste statistiche, dicendo che non riusciva a fare abbastanza affari nel suo ristorante, che serviva cucina regionale di Hong Kong, e quindi si è orientato verso l’offerta di sushi all-you-can-eat, che non assomiglia a nulla di simile a quello che si trova in Giappone. Gli affari non sono mai andati meglio.

Un’altra tattica spesso utilizzata dai ristoratori per ingraziarsi i palati occidentali è il linguaggio: i cibi vengono descritti con parametri italiani familiari, come, ad esempio, indicare la pita di falafel come piadina di falafel, gli xiao long bao come ravioli cinesi ripieni di brodo o la taramasalata come crema di uova di lompo. Ciò può essere positivo, in quanto la familiarità di queste parole aiuta a contrastare i sentimenti neofobici e, in ultima analisi, porta a una più ampia accettazione di cibi e culture precedentemente sconosciuti. Tuttavia, ciò mette in luce quanto sia omogenea la tavolozza – e il punto di riferimento – degli italiani, nonostante oltre l’11% della popolazione sia di origine straniera, per un totale di oltre 6 milioni di individui (in aumento ogni anno).
Tornando al mercato Trionfale, ho parlato con due venditori stranieri, entrambi con il proprio banchetto. La prima, Laura, vende formaggi di piccoli produttori di Amatrice e conserve fatte in casa. È originaria della Romania, ma è immigrata a Roma 30 anni fa, quando aveva 20 anni. Ora ha un marito italiano, un gruppo fedele di clienti italiani abituali e una posizione ambita al centro del mercato, che possiede da una decina d’anni. È il ritratto dell’assimilazione.
Rony si è trasferito qui 15 anni fa dal Bangladesh. Lui e la sua famiglia gestiscono una bancarella di prodotti internazionali ai margini del mercato. Nonostante parli correntemente l’italiano e possieda la sua bancarella da quasi lo stesso tempo di Laura, la sua clientela è composta in maggioranza da altri stranieri. Ciò solleva la questione di chi può accedere al sancta sanctorum della cultura italiana e chi no. Per la maggior parte degli immigrati – in particolare per le persone di colore – l’Italia non è né un melting pot né un arazzo variegato.
La neofobia nei confronti del cibo in Italia non è un caso: i partiti di destra al governo hanno un’agenda gastronazionalista ben documentata. Negli anni 2010, la Lega Nord ha condotto una campagna, e in seguito ha approvato una proposta di legge, che vietava a qualsiasi venditore di vendere cibo nel Nord Italia che non fosse regionale del Nord Italia. L’unico modo per aggirare questo divieto era quello di presentare un piatto tradizionale del Nord Italia accanto a qualsiasi piatto straniero venduto. Ancora oggi si sentono i postumi di questa politica: basti pensare a tutti i negozi di kebab che vendono anche piatti di pasta e pizza. È anche un altro fattore che contribuisce all’italianizzazione dei nomi dei cibi stranieri che compaiono in molti menù, come già detto.
Più recentemente, il governo Meloni ha presentato una petizione per l’inserimento della gastronomia italiana nella Lista del Patrimonio Culturale Immateriale dell’UNESCO, che le garantirebbe lo status di cucina codificata. Nel frattempo, Francesco Lollobrigida, Ministro dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare del governo Meloni, ha decretato che l’Italia vieterà la produzione di carni allevate in laboratorio e di farine di insetti e prodotti con esse realizzati, due importanti categorie di nuovi alimenti adottati come alternative proteiche salutari alla carne dal resto dei Paesi dell’UE. In questo caso, il gastronazionalismo neofobico non riguarda tanto l’afflusso di cultura straniera, quanto piuttosto la reticenza a muoversi verso un modello futuro di gastronomia che tenga conto degli ultimi sviluppi in materia di sostenibilità e innovazione alimentare. In ogni caso, la riluttanza ad adattarsi alla realtà dell’attuale clima culturale mi porta a chiedermi quale sia il futuro di questo orgoglioso Paese.
Nonostante ciò, le cose stanno cambiando, anche se lentamente e forse contro la volontà del governo. Dal 2007 le vendite di cibo internazionale sono aumentate del 93% e i giovani sono sempre più aperti e abituati a cibi provenienti da culture straniere, anche se in forma imperfetta. È il primo passo verso un paesaggio gastronomico che rifletta effettivamente tutte le persone che sono passate per questo Paese e che vivono all’interno di questi confini, e che rifletta anche il punto in cui si trova oggi il discorso sul cibo. Il che non vuol dire che non ci sia posto per la tradizione: c’è sicuramente, soprattutto in posti come l’Italia dove il cibo è così intrinseco all’identità culturale, ma ci deve essere un modo per preservare la tradizione senza cadere nella xenofobia o nell’ultra-nazionalismo; per preservare ciò che di buono e di grande c’è nella tradizione alimentare italiana, aprendo al contempo le porte per far entrare nuove prospettive e permettere alle profonde radici della cultura alimentare italiana di far crescere forse qualche nuovo ramo.