

Gli amanti dell’estate italiana amano ricordare con nostalgia, anche in inverno, le serate stellate intorno a un falò con il sale sulla pelle o i pomeriggi afosi con un gelato che si scioglie piano piano. Il sole italiano ha questo effetto sui corpi e sulla mente: difficile da dimenticare.
Il giovane fotografo milanese Stefan Giftthaler scatta immagini altrettanto difficili da dimenticare. Giftthaler ha studiato allo IED Istituto Europeo di Design di Milano e alla Hochschule für Gestaltung und Kunst di Zurigo, prima di iniziare una carriera nella fotografia di moda. Presto però si è messo in proprio, come piattaforma per mostrare luoghi, paesaggi e architettura italiana (oltre alla moda). Le sue foto evocative ed emozionali, che alcuni credono catturino il “dadaismo involontario” del mondo, hanno colpito molti e sono state pubblicate su riviste che vanno da Vogue a The Financial Times.
Le sue foto immortalano racconti estivi di momenti sfuggenti. Stuoie abbandonate ad asciugare al sole. Parchi giochi senza bambini con giostre che hanno ancora le luci accese. Città fantasma, parchi acquatici, i corridoi di case solitarie. La sua fotografia è un vero viaggio, metaforico e reale, alla ricerca dei segreti del mondo italiano. Abbiamo chiacchierato con Stefan su come l’Italia e l’estate italiana ispirano il suo lavoro:


Alessandra Busacca: Cosa significa per te l’estate italiana?
Stefan Giftthaler: Per me, l’estate italiana forse significa riscoprire sensazioni che mi riportano alle esperienze della mia infanzia. Per me, in questo senso, la fotografia non è tanto ritrarre le cose che si vedono, ma cercare ciò che è nascosto sotto la superficie delle cose visibili.
La visione del mondo che avevamo da bambini: il mondo come un insieme di simboli da decifrare, quasi un linguaggio segreto. Il mondo sembra essere punteggiato di luoghi magici il cui significato nascosto ci sfugge sotto la superficie visibile. In questo senso è come se ci fosse un lessico segreto, un alfabeto che appare attraverso questi luoghi che cerco di fotografare. Da questo punto di vista, forse per me è più importante “sentire” i luoghi in cui mi trovo, piuttosto che semplicemente osservarli. Sentire, ad esempio, i suoni di una televisione che provengono da una finestra aperta di una casa di provincia nel dopo pranzo estivo, o gli odori di detersivo della biancheria stesa ad asciugare.
AB: Il modo in cui il tempo pervade le tue immagini è molto interessante. Non catturi solo un momento ma, come dici anche tu, lasci trasparire il passato. Guardando le tue immagini surreali, sono magicamente pervasa da un senso di calma serafica che congela tutto. Ma allo stesso tempo, ho l’impressione che una folata di vento sia dietro l’angolo, pronta a cambiare tutto nell’inquadratura. Qual è il tuo rapporto con la solitudine o l’abbandono dei luoghi, che emerge da alcuni di questi scatti?
SG: Il rapporto con il tempo è qualcosa che sento molto segna il mio modo di fotografare. La mia aspirazione è che le mie immagini in qualche modo non si collochino in un tempo specifico. O meglio, che possano far parte di un passato indeterminato, e che anche i luoghi ripresi oggi appaiano in qualche modo fuori dal tempo. Sentire, ascoltare i luoghi ha certamente a che fare con l’aspetto del loro abbandono, di come appaiono nella loro essenza silenziosa, al di là della loro funzione primaria.


AB: Le tue foto introducono un “terzo piano di realtà” – un elemento alienante che ci fa riflettere e interrogare sul significato ultimo delle cose. Qual è il tuo segreto per catturare questo effetto?
SG: Cerco di avere un rapporto semplice e neutrale con quello che vedo, con ciò che mi si presenta davanti agli occhi. Quindi provo a rimanere solo con quello che c’è, cercando di non aggiungere interpretazioni personali (per quanto sia difficile). Sento che la realtà stessa è già così carica di significati e misteri difficili da interpretare: non c’è bisogno di aggiungerne altri. Quindi anche in termini di luce o colori, cerco di lavorare con quello che trovo al momento.
AB: Le tue foto spesso riflettono anche uno sguardo umoristico sulla realtà. C’è una certa leggerezza in esse.
SG: È la leggerezza che ci permette di guardare il mondo con un po’ di distacco e ironia, cercando di ricordarci che siamo qui solo di passaggio per un breve periodo e quindi forse vale la pena non prendere le cose troppo sul serio.
AB: Chi sono le tue ispirazioni?
SG: Per me, la letteratura è una grande fonte di ispirazione. Penso ad autori come Roberto Bolaño, Natalia Ginzburg, Haruki Murakami, Witold Gombrowicz, Gianni Celati, Cormac McCarthy. Anche la musica di Battiato con le sue atmosfere mediterranee. Mi piacciono gli autori che creano mondi, che partono dalla semplice descrizione di ciò che accade in superficie e si addentrano in altri mondi misteriosi. Penso che l’esperienza della vita sia interessante proprio quando ti rendi conto che la superficie quotidiana, che a volte appare banale, nasconde elementi misteriosi che a prima vista non sempre riesci a cogliere. In questo senso, la fotografia è un ottimo mezzo perché ci permette di riguardare i luoghi in cui siamo stati e vederne la carica magica che forse non era così evidente al momento.
AB: Hai delle fonti cinematografiche di ispirazione?
SG: Mi sento affascinato da certi registi italiani come Alice Rohrwacher con la sua visione poetica, o Pietro Marcello, o anche Franco Piavoli o Agostino Ferrente.


AB: Che rapporto hai con l’Italia?
SG: Sono cresciuto in provincia di Treviso, ma vivo a Milano dal 2000 circa e la considero casa mia. Trovo interessante viaggiare perché ti permette poi di guardare la tua città con occhi diversi, come se la vedessi per la prima volta. Ricordo che Gabriele Basilico diceva in un’intervista che Milano è come un porto tranquillo dove tornare e far sedimentare le impressioni tra un viaggio e l’altro. Mi ritrovo molto in questa sua frase. Milano per me è una continua scoperta, soprattutto attraverso i grandi nomi dell’architettura e del design che l’hanno animata e plasmata dal dopoguerra in poi, punteggiandola di opere che la rendono una specie di museo a cielo aperto. Mi piace girarci, cercando di sentire le differenze di atmosfera tra i quartieri e scoprire nuovi dettagli.
AB: Cosa impari in questi viaggi?
SG: Più ci muoviamo lentamente, più le sfumature appaiono grandi. Se andiamo da un continente all’altro in poche ore in aereo, ci troveremo sicuramente in posti molto diversi da quelli che abbiamo lasciato quando siamo saliti sull’aereo, ma se invece guidiamo solo due ore da una provincia all’altra in Italia, allora scopriremo enormi differenze nel parlato e nella cultura del posto, nel modo in cui il paese e la sua comunità vivono, nei colori delle case e nell’architettura residenziale. Insomma, più ci muoviamo lentamente, più appaiono grandi le differenze tra luoghi apparentemente vicini tra loro. Poi, sicuramente, il vero viaggio è quello interiore. Come i luoghi ci trasformano.
AB: Quale meta di vacanza italiana ha conquistato il tuo cuore?
SG: Amo davvero i posti non troppo affollati, che mantengono ancora un’atmosfera propria e non sono dedicati esclusivamente al turismo. Quelli dove è possibile cogliere i ritmi della vita quotidiana. Come luoghi di mare, mi piace molto Gatteo a Mare sulla Riviera Romagnola, certi posti più piccoli in Marche come Marotta o Cupra Marittima, o anche i dintorni di Maratea. Mi viene in mente l’entroterra del Lazio, soprattutto la Tuscia, o i paesini di Basilicata e Irpinia fermi nel tempo. I Monti Dauni nella zona di Foggia. La campagna del Po. In ogni caso, non si finisce mai di scoprire posti nuovi, e anche se sembra una banalità, il viaggio più recente è sempre il più bello.




Fotografia di Stefan Giftthaler