Sono balzata con gioia dal traghetto e ho toccato terra. Prima ancora di alzare lo sguardo o respirare i profumi dolci del mio nuovo ambiente, è stata la vista dei piedi nudi e incredibilmente abbronzati del mio ragazzo Cesare, che mi aspettava gentilmente, a riempirmi per prima di quel meraviglioso senso di familiarità. Ero arrivata. Ero tornata nel mio paradiso: l’Isola di Panarea.
Era la mia quarta estate trascorsa sulla minuscola isola italiana. Cesare ci viene dalla nascita. Con una superficie di soli 3,4 chilometri quadrati, Panarea è la più piccola delle sette isole che formano l’arcipelago delle Eolie, che appaiono come gemme scintillanti raggruppate al largo della costa settentrionale della Sicilia.
Il nonno e il prozio di Cesare hanno costruito le loro case estive sull’isola alla fine degli anni ’50, pochi anni prima del suo grande debutto sociale. Panarea è stata messa sotto i riflettori nel 1960, recitando in alcune delle scene più insidiose, lacrimevoli e meravigliosamente romanzate de L’Avventura. Nel decennio in cui i viaggi presero il volo e le terre nascoste e dimenticate divennero di gran moda, crebbe la curiosità e arrivarono il fermento, il trambusto, lo sfarzo e il glamour dell’élite degli anni ’60. Eppure, dopo oltre mezzo secolo, i paparazzi non sono mai arrivati. Non ci sono auto, né lampioni, (niente tacchi a spillo!) e nessun hotel a cinque stelle a Panarea. Proprio come l’isola sembra galleggiare tra le acque, rimane apparentemente sospesa nel tempo; bloccata in un’era che oscillava, ballava e brillava ma senza lo sfarzo, l’ostentazione o il flash.
‘Cosa ti va di fare?’ mi ha chiesto Cesare, una volta che ci eravamo salutati, abbracciati e avevamo diviso il mio bagaglio, carico soprattutto di camicie di lino, bikini e libri per tutta l’estate, tra noi due. Il motto della mia famiglia ‘condividere e condividere’ si dimostra utile a volte. ‘Che domanda stupida!’ ho risposto con un sorriso. Era quasi il crepuscolo. Il bagliore infuocato del sole si era attenuato e i cieli erano intrisi di sfumature pastello di rosa. Le case bianche dell’isola, rivestite di luminose fioriture di Bougainvillea erano ormai in ombra e le acque circostanti erano lisce come l’olio nella loro calma imperturbata. Il tramonto poteva significare solo una cosa a Panarea e una cosa sola. Sorridendoci l’un l’altra e senza dire un’altra parola, ci siamo diretti verso il bar di Raya, con i piedi nudi di Cesare in testa. Vedi, Cesare, nel profondo del cuore un panareano, fa come fanno i veri isolani. Giorno e notte fino alla fine dell’estate, rinuncia al bisogno di scarpe.
Hotel, ristorante, discoteca e bar, Raya è ancora di più di tutto questo. È un punto di riferimento dell’isola, il suo focolare e hotspot. Ancora una volta, emergendo negli anni ’60, Raya è un fattore primario e probabilmente fondamentale dietro la popolarità di Panarea; la storia di successo degli artisti Myriam Beltrami e Paolo Tilche. Tutto è iniziato quando l’enigmatica coppia, veri jet setter, ha cominciato a invitare i loro amici nella loro nuova casa sull’isola. Presto realizzando che troppi volevano venire, hanno visto la necessità di ulteriori alloggi e hanno iniziato a costruire a destra, a sinistra, avanti e indietro. Così è nato l’Hotel e Resort Raya. Ancora oggi, la scena estiva affluisce come stormi di pappagallini, impiumati nei loro colorati abiti estivi, i loro becchi assetati di infiniti cocktail estivi e le loro ali che sbattono con impazienza per ballare via le notti afose.
Seduta sul piano più alto della torta nuziale di terrazze di Raya, con un bicchiere di vino ghiacciato in una mano e vari stuzzichini nell’altra, la mia prima notte a Panarea era iniziata bene. La spettacolare vista sul mare era animata dai ricordi di Cesare sulla vita sull’isola. Mentre raccontava le sue storie, osservavo l’orizzonte dove ogni pochi minuti l’isola vulcanica attiva di Stromboli sputava il suo sputo rosso fiammeggiante come fuochi d’artificio intermittenti nel cielo notturno che si avvicinava.
Cesare parlava del suo prozio, il cui disgusto per il pesce avrebbe potuto rendere un’isola una scelta strana come casa, ma da abile pescatore, vorace barattatore e ospite numero uno per le cene, si assicurava che funzionasse e ci si divertiva pure. Scambiando la sua migliore pesca del giorno con i tagli più pregiati di agnello e manzo del macellaio, i banchetti carnivori e le feste che organizzava di seguito erano un grande successo. Solo la governante la pensava diversamente o almeno si preoccupava di ciò che accadeva durante questi raduni. Nel preparare la casa il giorno prima di un incontro, girava tutte le immagini della Madonna o dei santi. “Giusto in caso…” diceva.

Mentre lo zio trovava la sua gioia sull’isola pescando, stando con gli amici e mangiando bene, Cesare e i suoi amici d’infanzia preferivano il gioco notturno assolutamente proibito di fare i pirati. Fregando le chiavi dei gommoni dei loro genitori, si avventuravano nei mari illuminati dalla luna come Capitan Uncino e la sua ciurma storta. Anche se, ahimè, non fu mai trovato alcun tesoro, nessun osso fu rotto, né ci fu alcuna scoperta da parte dei genitori. Cesare ridendo, io solo un po’ perplesso, abbiamo bevuto gli ultimi sorsi di vino e siamo andati a casa. Ciotole piene di Pasta alla Norma ci aspettavano calorosamente.
I giorni si fondono l’uno nell’altro sull’isola. Le mattine si passano al porto facendo colazione con granita al pistacchio e brioche, un’accoppiata vincente che dicono abbia origine in Sicilia, ma io scommetto sul paradiso! Sicuramente ti prepara per un pomeriggio in mare con libri, maschere e borse di fichi, freschi dall’albero. Bisogna pur avere un po’ di sostentamento per tutti quei bagni dentro e fuori le baie dell’isola. Poi la sera, passeggiando da casa di un amico all’altro, la luna e le stelle fanno da guida al cibo, al brivido della conversazione e al vino Marsala.
È sempre triste lasciare Panarea, ma in qualche modo non lo faccio mai veramente. Nel peggiore dell’inverno o durante le giornate stancanti al lavoro, la mia mente salpa verso l’isola: verso le sue calette rocciose e le acque cristalline, verso i suoi tramonti che strappano l’anima e i cieli illuminati dalla lava, verso le sue strade strette e acciottolate fiancheggiate da cactus selvatici e cespugli rosati di oleandro e, ultimo ma non meno importante, verso i piedi nudi e abbronzati di Cesare. Anche se non ho mai completamente rinunciato alle scarpe per l’estate, optando spesso invece per indossare i miei amati sandali con cinturini in pelle fatti su misura sull’isola, ho adottato con tutto il cuore lo spirito dei piedi nudi; la sensazione che rappresenta. Quella sensazione, ovviamente, è libertà.